Di Chiara

Colonna sonora di migliaia di giovani negli anni ’90, è innegabile che gli 883 siano sopravvissuti alla prova del tempo. A distanza di più di 30 anni sembra che le canzoni di Max Pezzali e Mauro Repetto siano state scritte ieri. Quante serate, quante vacanze, quante trasferte hanno avuto una loro canzone come sottofondo, quante nottate insonni e avventure? Merito di ciò è da attribuire sicuramente ad un lessico spregiudicato e ad una musica che di fatto ha raccontato i grandi sogni e i grandi incubi dell’essere giovani, del voler rompere con le regole comuni, della voglia di prendersi tutto ciò che il mondo può offrire. Sull’onda di un successo che non è mai sbiadito, è arrivata quest’anno la serie prodotta da Sky “Hanno ucciso l’uomo ragno – la leggendaria storia degli 883”: i produttori sono riusciti a raccontare uno spaccato della provincia italiana di fine anni ’80, proprio quello fatto di comitive di ragazzi in sella al proprio “Ciao”, quelli del viaggio in motorino sempre in due, quelli del mondo chiuso dentro la sala giochi.

Per come la serie racconta la genesi di questo successo, la loro storia non ha nulla di strettamente leggendario, se non la linee intrecciate e malinconiche di tanti ragazzi comuni che sognano di lasciare la provincia, un grumo di sogni e debolezze che saranno i testi degli 883: Max viene bocciato a scuola ed è costretto a rimanere a Pavia per l’estate e a lavorare per l’attività di famiglia. A causa di quelle che lui crede siano solo una serie di sfighe si ritrova però a scoprire una grande passione per il Punk e per la musica in generale. La bocciatura si rivelerà fondamentale, visto che si ritroverà, per puro caso, compagno di banco di Mauro; ne deriva da subito una certa alchimia, che si fonda sulla scarsa voglia di studiare ma che ben presto si trasformerà in qualcos’altro.

Max Pezzali viene presentato come un ragazzo diverso dall’ambiente pavese di fine anni ’80: un po’ impacciato e logorroico, eppure patito di musica e accanito frequentatore di concerti e bevitore incallito di birre scure; le sbronze e i concerti – come spiegherà lui stesso – gli procureranno la sonora bocciatura. Mauro Repetto, al contrario, è un ragazzo esibizionista che fa dell’essere un animatore nei villaggi turistici la sua personalità, ma di musica si appassiona per puro caso. Sarà però lui a dare all’insicuro Max quel qualcosa in più per tentare con la musica: coraggio, spregiudicatezza e una buona dose di faccia tosta. Sembra quasi che si siano equilibrati a vicenda: la mente e il performer. La serie ha il sicuro pregio di mostrare le influenze e gli intrecci che portano alla nascita della loro vocazione: per Max la folgorazione punk è uguale solo alla “rivelazione” hip hop proveniente da Los Angeles con “Straight outta Compton” degli NWA. Per Mauro si rivelerà decisivo il mondo delle discoteche e dei Dj per avvicinarsi al mondo delle console, dei piatti elettronici e dei mixtape. Entrambi capiscono che è in corso una rivoluzione: la musica può essere fatta da tutti anche senza saper suonare uno strumento.

A questo mondo in fermento loro portano la loro originalità: quello slang provinciale di Non me la menare, che nasce direttamente dalle viscere di un cratere scavato tra quel “noi” alternativo e ribelle contro quel “voi” borghese e perbenino che sogna vita comoda e posto fisso. Chi può dire quanto abbiano influito gli 883 sull’immaginario delle generazioni cresciute a cavallo degli anni ’90, quando le canzoni del duo erano sparate a “1000watt” su qualsiasi Radio? Quei ragazzi annoiati ma allo stesso tempo desiderosi di trovare una via di fuga da un mondo borghese, monotono ed opprimente, quello dei genitori, quello del lavoro, quello dei figli di papà in università, quello degli impiegati senza più sogni, non sono forse state le prime generazioni politiche dopo parecchi anni di assenza? Le generazioni che si affacceranno sul 2000 con spirito di contestazione e voglia di rivalsa, la “grande onda” che si riverserà negli stadi, nelle piazze e purtroppo, anche sull’asfalto.

È infatti la Radio a segnare il loro destino: l’invio di un loro pezzo a Radio Deejay e l’incontro con il talent scout Claudio Cecchetto, segnano la svolta: fanno breccia nei cuori degli spettatori, forse proprio per il loro non essere delle rockstar maledette e tormentate come Jim Morrison, o forse perché erano esattamente come tutti i loro coetanei: in crisi di rappresentanza politica ma soprattutto musicale. Una colonna portante dell’intera serie sono i due attori protagonisti Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli. Non si sono limitati ad imitare i loro personaggi, ma li hanno interpretati e fatti propri: sono portatori delle differenze che riescono però a compensare a vicenda. E forse risiede proprio in questa dicotomia l’anima stessa degli 883. Per quanto la sceneggiatura non sia nulla di troppo complesso riesce a spiegare la nascita dei pezzi più importati e significativi del gruppo partendo proprio dai tanti rivoli che formano le esperienze dei due giovani pavesi: le donne, gli amici, la scuola, la comitiva, gli adulti. Tutto questo humus che di solito diamo per scontato ma che gli 883 hanno musicato e reso provincialmente universale. Jolly Blue, Con un deca, S’Inkazza, Hanno ucciso l’uomo ragno; tutte canzoni che conosciamo a memoria e che hanno resistito all’usura del tempo e del successo, diventando classici della musica italiana. Forse è questo che dovrebbe inquietarci di più: se alcune canzoni sono ancora così attuali vuol dire che dopotutto il mondo non è cambiato così tanto dal 1992. O forse alcune cose non cambiano mai e basta.
Il merito della serie è l’essere riuscita a raccontare una storia normale, senza grandi colpi di scena, ma con un ritmo sempre alto e delle interpretazioni da incorniciare che la renderanno sicuramente iconica. Non si tratta semplicemente di una biografia: Sydney Sibilia ci ha regalato un racconto di formazione, un inno alla giovinezza e alla creatività, coperto da quel sottile velo di nostalgia per un tempo passato. Una nostalgia che riesce a innescare nello spettatore la sindrome dell’epoca d’oro: la nostalgia per dei tempi che non sono stati vissuti. Per noi resta una grande dedica a chi “continua a lottare” a chi “se ne frega di chi gli dice come dovrebbero vivere, cosa dovrebbero sognare,  chi dovrebbero essere”.