Di Jean

Si chiama Roman Zancarli, ha 26 anni e da due anni vive in macchina. La sua non è mai stata una vita facile. Abbandonato dai genitori, all’età di quattro anni viene adottato da una famiglia italiana:  Odessa si trasferirà in provincia di Verona. Dopo essere diventato padre a diciassette anni, viene cacciato dalla famiglia adottiva finendo per convivere con la sua compagna dove resterà fino al 2022. Come egli stesso racconta soffrì per molti anni di depressione dalla quale guarì iniziando appunto la sua vita da nomade. Sui canali social vanta migliaia di seguaci e la crescente popolarità sul web ha attirato l’attenzione anche della televisione e dei principali quotidiani.

Ma cosa ha spinto questo ragazzo ad una scelta radicale? C’è chi lo descrive come uno spirito libero che, forse stanco del grigiore della vita di provincia fatta di ristrettezze economiche e turni massacranti di lavoro, sceglie di abbandonare le comodità per darsi ad un’esistenza frugale nella speranza di migliorare anche la propria salute mentale. Se si comprende la situazione socio economico di Roman però ci si rende conto che la sua scelta a ben poco a che vedere con il sogno di una vita ascetica alla “Into the wild”. Seppur egli affermi di aver scelto consapevolmente questo stile di vita, egli non vive lontano dalla civiltà dedicandosi all’agricoltura di sussistenza o in un convento di frati francescani. Ogni mattina timbra il cartellino e per nove ore consegna pacchi per Amazon. Un lavoro stressante, ben lontano dalla visione idilliaca di una vita a contatto con la natura. Si intuisce pertanto che la sua decisione di fare della sua Ford Focus la sua abitazione rinunciando agli agi e alla fissa dimora sia unicamente frutto delle pesanti ristrettezze economiche. Una storia non di libertà ma di disagio sociale, ennesima dimostrazione di un sistema economico tirannico che affama i lavoratori e di uno stato che abbandona i bisognosi negando, come in questo caso, quantomeno un alloggio popolare. 

Siamo dinnanzi all’ennesimo caso di spettacolizzazione della miseria e di aperta negazione di un problema reale, quello della sempre maggiore povertà.

Ricordiamo tutti di quella bidella napoletana che ogni mattina prendeva il treno diretto a Milano per potersi guadagnare un salario che a malapena copriva i costi del trasporto. S’era poi scoperto che la collaboratrice scolastica solo pochi giorni percorse questo viaggio in quanto trascorse un lungo periodo in malattia e in seguito trovò un’occupazione nella sua città. Ai tempi v’era chi applaudiva questa sua disponibilità a lavorare così lontano da casa e, come da copione, sfruttando l’occasione per redarguire i giovani viziati che pretendono un impiego vicino. Il fatto stesso che una vicenda del genere sia diventata un esempio di dedizione anziché uno spunto di riflessione sulle misere condizioni lavorative specie nel Meridione, la dice lunga sullo scarsa attenzione generale riservata  ai temi sociali tanto da parte della popolazione civile quanto da parte della politica. 

Vi sono dei casi in cui storie di sfruttamento e disagio sociale  finiscono per diventare la trama di uno spot pubblicitario. Amazon nel 2021 la multinazionale americana lanciò uno spot che aveva come protagonista un ragazzo marocchino che con tono dimesso ma leggermente speranzoso racconta della sua esperienza lavorativa in Amazon tra senso di fratellanza  coi colleghi e riscatto sociale. Non dubito che le sue condizioni di vita siano migliorate da quanto vive in Italia e lavora per il colosso dell’ e-commerce. Tuttavia non si può dire lo stesso dei suoi colleghi costretti a turni massacranti. La multinazionale americana come sappiamo è famosa per calpestare ogni diritto e tutela nei confronti dei lavoratori tra pause cronometrate e decurtate dal salario e scarsissima sicurezza nei magazzini. 

Di tanto in tanto, specie sulle principali testate online, compaiono storie di disoccupati prossimi all’età pensionabile che si reinventano come rider oppure di giovani studenti costretti a molte ore di lavoro sottopagato pur di potersi pagare l’università. Nulla di strano se non fosse che tutti questi articoli celebrino queste persone, definendoli coraggiosi, tenaci o, come si usa dire oggi “resilienti”. Certo è lodevole l’impegno di un padre di famiglia che pur di sfamare la prole è disposto ad accettare qualsiasi impiego ma è ipocrita considerarla come una libera scelta. Del resto chi sceglierebbe, pur potendo permettersi di meglio, di rischiare la vita consegnando frettolosamente in bicicletta cibo d’asporto per conto di una multinazionale? 

Esiste qualche cultore della cosiddetta “semplicità volontaria” che decide di usare meno possibile il  denaro e allontanarsi dai comfort. Tuttavia  è assurdo è irrazionale pensare che così tante persone, magari anche padri come Roman, scelgano spontaneamente di vivere in questo modo. Non è una libera scelta quella di chi vive in una minuscola stanza, di chi rinuncia all’automobile perché un misero stipendio non gli consente di godere di maggiori comodità. 

 Lo sfruttato depauperato ed obbediente viene eretto a modello:  coraggioso non è più chi alza la testa dinnanzi ai soprusi ma chi li accetta passivamente e con resilienza si adatta a qualunque ingiustizia. Finiscono per essere giustificate condizioni di vita altrimenti inaccettabili ma che a causa di un sempre maggiore impoverimento diventano oggi la normalità.

Cadono le bugie dell’epoca consumista. Da sessant’anni ci viene proposto lo stile di vita all’occidentale, fatto di consumo illimitato ed acefalo. Ora però stiamo entrando in una nuova fase del capitalismo, quella  post-consumista dove v’è si un’abbondanza di beni materiali ma inaccessibili  alla maggior parte della popolazione per scarsità  di denaro. Chi rimane escluso non solo dal consumo dell’inutile ma anche dall’accesso ad una vita dignitosa rimane a guardare ed è chiamato ad essere resiliente, cioè ad accettare supinamente la sua miseria.