di Patrizio

“No al calcio moderno” è lo slogan più sentito e letto nelle curve calcistiche da ormai qualche tempo.
Ma cos’è il calcio moderno? Da dove nasce? Cerchiamo di rispondere a queste domande e capire su quali prerogative si basi e, soprattutto, perché sia così odiato dalla stragrande maggioranza dei tifosi.

IL CASO BOSMAN

A livello temporale, possiamo porre il momento d’ingresso del mercato libero nel mondo del calcio nel 1995, con la sentenza Bosman: da allora, il calcio europeo, fino a quel momento molto regolamentato economicamente e contrattualmente, venne liberalizzato fino a raggiungere gli standard odierni.

Sostanzialmente la sentenza Bosman, emessa dalla Corte di Giustizia dell’UE, stabilì che i calciatori europei potessero trasferirsi gratuitamente, alla scadenza del contratto, in un altro club – di uno stato membro dell’Unione -. inoltre, se il contratto corrente avesse avuto una durata residua non superiore al semestre, il calciatore avrebbe potuto firmare un precontratto gratuito con la nuova società, vincolandosi ad essa.

La sentenza, poi, impedì alle varie federazioni di porre un tetto al numero di calciatori stranieri, fatto che ha tutt’ora ripercussioni anche sui vivai: in alcuni paesi, in particolare l’Italia, le società tesero da allora a preferire l’acquisto di stranieri rispetto alla crescita dei propri calciatori locali.

 L’UEFA, tra l’altro, consentiva di convocare un massimo di tre stranieri per le sue competizioni: questa limitazione venne posta soltanto ai calciatori extracomunitari.

Tutto questo ci aiuta a capire come il caso Bosman abbia creato un enorme terremoto nel mondo del calcio europeo, liberalizzando totalmente il mercato dei giocatori. Ma l’ambito sportivo non è il solo intaccato dalle liberalizzazioni.

IL CALCIO SPEZZATINO

Dagli anni ’90 in poi, infatti, le partite di calcio iniziarono a venire trasmesse in diretta sulle TV, in chiaro; questa tendenza finì rapidamente, e le varie compagnie televisive come Mediaset e in particolare TELE+ – l’odierna Sky – iniziarono a comprare i diritti di trasmissione degli eventi sportivi, ponendoli sotto abbonamento. Inizia dunque il periodo del calcio spezzatino, le partite non si giocano più tutte allo stesso orario la domenica, ma alcune a pranzo, altre nel pomeriggio e i big match alla sera, per poi allargare il palinsesto ai fine settimana interi, con anticipi il venerdì e posticipi il lunedì.

GLI STADI SALOTTO DEL REGNO UNITO

Persino gli stadi smettono di essere spazi di aggregazione sociale di proprietà dei singoli comuni: in Inghilterra le singole società sportive, forti di finanziamenti volti a costruire una vera e propria industria dello spettacolo, si costruiscono i propri impianti abbattendo le strutture storiche – Highbury, stadio dell’Arsenal, Upton Park del West Ham, St. Mary’s del Southampton e così via – , dei veri e propri salotti dove non c’è spazio per il tifo acceso e organizzato; la repressione del movimento hooligan nella seconda metà degli anni ’80 segna un forte punto di rottura con l’idea di un calcio come valvola di sfogo per la working class, verso una visione più commerciale del tifoso.

Ma se nel Regno Unito le società – specie le provinciali – seguono la filosofia dell’every penny will be spent for the football club, rimane la mentalità del tifoso clientelare: non c’è spazio per una concezione popolare del calcio, è molto più importante il guadagno degli abbonamenti, dei diritti TV – per i quali la vincitrice della Championship guadagna di più della vincente della Serie A italiana – o del merchandising: zero magliette di gruppi autofinanziati di tifosi, 100% del guadagno per la società.

Non ci si permetta poi di criticare un giocatore a voce alta, accendere un fumogeno, sventolare bandiere o srotolare striscioni: daspo a vita.

IN ITALIA

Il caso inglese è già molto specifico, mentre nel resto d’Europa – specie in Italia – , la cultura del tifo è sempre stata molto più sociale: tolte le grandi squadre, società provinciali possono vantare il seguito di gruppi di tifosi – più o meno nutriti – di estrazione tutto sommato popolare, che non vedono la curva come un guadagno da sfruttare, quanto più come un piccolo mondo dove esprimere sé stessi, portare con orgoglio e difendere la propria città e le proprie radici. Gli ultras italiani si sono, nel tempo, peraltro sempre distinti per grandi gesti di solidarietà in caso di catastrofi come terremoti e alluvioni.

Non è un caso se, in questi anni dopo la fine del Covid in particolare, stiamo vedendo le curve pian piano riempirsi di nuovo di giovani, di ragazzi mossi da un sano spirito identitario, refrattari alle etichette di “criminali”, “pericolosi violenti”, “facinorosi”, dal sempreverde spauracchio dei fascisti cattivi dei benpensanti; e chiaramente per chi vuole trasformare il calcio nell’ennesimo prodotto confezionato in streaming tutto ciò è inaccettabile.

Da qui, in Italia, a seguito della morte accidentale dell’ispettore capo Filippo Raciti, sopraggiunta a Catania nel 2007 nel corso degli scontri tra la tifoseria locale e gli arcirivali del Palermo, lo stato decise di iniziare una vera e propria “guerra” al tifo organizzato. E quindi trasferte vietate, Daspo con firma alla minima infrazione, telecamere in ogni angolo. Quale migliore occasione per il capitalismo sportivo di fornire un certo tipo di prodotto anche in Italia?

IL FLOP DEL MODELLO PAY TV ITALIANO

Ed eccoci giunti all’arrivo delle piattaforme web. Oggi il calcio spezzatino si è evoluto (o, secondo noi, involuto) non solo in materia di orari, ma anche di diversità di mezzi su cui seguire le partite: Sky, DAZN, Amazon Prime… alcune peraltro di qualità veramente discutibile. La Serie A arriva su DAZN nel 2018, inizialmente con solo 7 partite a giornata per poi col tempo coprire le giornate complete. Gli abbonamenti schizzano alle stelle, tra servizi scarsi, connessioni ai server traballanti per offerte sempre meno convenienti. I momenti salienti delle partite chiave del campionato italiano vengono pubblicati gratuitamente su YouTube con ore se non giorni di ritardo, i campionati minori non vengono coperti, e il calcio europeo? Ovviamente su un’altra piattaforma, Amazon Prime.

Insomma, caro tifoso, zitto e paga: poco importa se costa uno sproposito ed il servizio è scadente. E questo discorso non è slegato dalle strutture: gli stadi italiani cadono sì a pezzi, ma la preoccupazione delle società è un’altra: vendere, creare la zona business con il ristorante chic, il teleschermo interno, il centro commerciale tra lo scheletro degli edifici storici e la struttura nuova: vedi il caso San Siro, il caso Dall’Ara di Bologna, il caso Stadio Franchi di Firenze o il Gewiss Stadium di Bergamo – che a noi piace ancora chiamare Atleti Azzurri d’Italia; una logica improntata al consumo. Dell’incolumità dei tifosi ce ne freghiamo, specie di quei facinorosi delle curve. Vessati con prezzi folli per i settori ospiti, Daspo Willy, tessere del tifoso e biglietti nominali, ma ottimi per le storie Instagram dei club quando organizzano le coreografie – rigorosamente autofinanziate.

PER UN CALCIO DIVERSO

In conclusione, il capitalismo sta uccidendo il calcio. Lo sport nazional-popolare per eccellenza, nato nelle strade, legato a logiche di identità territoriale, la visione del tifo artefice di opere sociali: tutto questo col calcio clientelare non c’entra niente, con il fair play finanziario e con il mercato predatore. Che rinasca una cultura calcistica europea basata sull’identità, la difesa dei propri colori, la concretezza dei confronti con i rivali, la gerarchia della curva come un clan, le squadre come cuore pulsante del sentimento delle comunità che rappresentano. Perché non è la pirateria che uccide il calcio, ad ucciderlo è la repressione dello spirito dello sport e del tifo.