Di Michele

Uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro dell’ideologia woke. Ma appunto solo di uno spettro si tratterebbe, una sorta di allucinazione collettiva. Anzi, il woke non esiste, è una parola vuota, un concetto senza contenuto. O almeno, questa è la posizione di Marco Gervasoni che, in un articolo apparso per Huffington post, proclama la non esistenza del pensiero woke e assicura di portare le prove di ciò. L’articolo – dal titolo di per sé già piuttosto esplicativo: Il woke non esiste: ve lo dimostriamo– ha fatto discutere non solo per via del suo contenuto, ma anche a causa del suo autore. Soltanto una manciata di anni fa Gervasoni pretendeva di essere una voce del variegato mondo del sovranismo, per poi trasformarsi nel suo esatto contrario. Una conversione talmente radicale da apparire a molti inspiegabile, con l’articolo in questione a sancire in maniera inequivocabile e mostrare anche ai più distratti l’avvenuta folgorazione sulla via di Damasco. O, forse, sulla via del Quirinale.

Idee poco chiare?

Ma andiamo a prendere in esame l’articolo in sé, prescindendo dal suo autore. Se la premessa è che riguardo al mondo woke “non sembrano circolare idee molto chiare” e che lo stesso termine non sia altro che “la classica notte in cui tutte le vacche sono bigie”, l’articolo non fa nulla per dipanare questi dubbi. La non sussistenza di una ideologia woke sarebbe dimostrata, per Gervasoni, dal fatto che “pochi sono coloro che si definiscono, in senso positivo, woke, molti di più, quelli, in genere della destra radicale, che accusano la sinistra di esserlo”, e – in seconda battuta – perché è “una nuova forma, magari più radicalizzata, del progressismo e del liberalismo americani”.

Un termine usato a sproposito

Se è vero che il termine woke è diventato una sorta di termine ombrello, utilizzato delle volte magari a sproposito, ciò non implica che sia un concetto inservibile o che non abbia una sua validità. Anzi, il fatto che sempre meno persone lo utilizzino in senso positivo ne dimostra l’efficacia polemica. Tanto che si è anche potuto parlare di fine dell’ideologia woke (“go woke get broke”), con la necessità però di dare una cornice più ampia alle battaglie culturali e identitarie contro le decostruzioni in atto rispetto al semplice risentimento se un qualche personaggio di una serie tv è vittima di blackwashing o porcherie simili.

Un percorso politico ben preciso

Anche l’affermazione che il woke sia una nuova forma di processi già esistenti non dimostra che questo sia privo di contenuto, al contrario lo radica in un preciso percorso politico. Anzi, a maggior ragione ci dovremmo interrogare su quali elementi di novità ha portato nel dibattitto pubblico. Infatti, non si stratta semplicemente di una radicalizzazione del preesistente, ma porta con sé una visione del mondo paranoica, unidimensionale, vittimistica, che riduce le complessità a feticci polemici (in questo caso: uomo bianco, patriarcato, colonialismo, ecc.). Paradossalmente troviamo gli stessi stilemi, la stessa volontà di un “risveglio”, anche in nicchie antropologiche apparentemente opposte come quella della redpill.

Il woke è destinato a vincere?

In fin dei conti, il primo a non credere che il woke non esista è lo stesso Gervasoni. Tanto da concludere che “l’agenda woke è destinata in ogni caso a vincere”, in quanto è “l’ulteriore tappa della dialettica della modernità, quella della lotta tra avanzamento e reazione, dello scontro tra progresso e conservazione, della contesa tra chi intende allargare i diritti e le libertà da un lato, e chi, invece, vorrebbe conservare i privilegi, e anzi addirittura restaurarne di antichi”. Insomma, non solo il woke esiste ma è anche ineluttabile. L’unico spazio residuale per una qualche forma di destra sarebbe quindi quello di arrendervisi, mitigando i passi troppo affrettati: “Quanto alla destra, sarebbe intelligente se, anziché demonizzare e volerlo cancellare, proponesse, del cosiddetto woke, una lettura moderata, gradualistica, di ‘senso comune’ alla Edmund Burke, anche per evitare di essere, per l’ennesima volta, espulsa dalla storia”.

Idiosincrasie di destra

Abbiamo qui condensate le peggiori idiosincrasie di quella destra che si vorrebbe conservatrice e responsabile, ma finisce per essere vittima di una strana sindrome di Stoccolma. La storia è sempre aperta, non ci sono processi il cui esito è già scontato o determinismi che tengano. Parlare di “dialettica della modernità”, di vittoria dell’ideologia woke e del progressismo, significa fischiare la fine della partita anzitempo. Così come è completamente insensato pensare che la storia abbia una sola direzione di progresso, che i diritti e le libertà siano solo quelli egualitari. Sono questi errori mortali che restituiscono l’immagine della politica divisa ed esaurita tra una sinistra e una destra che corrono sugli stessi binari, con quest’ultima in ritardo sulla prima. Due facce della stessa medaglia o, meglio, due teste di un’idra.

Una destra impolitica non si salverà

L’esito è quello di una destra destinata al fallimento, masochista, incapace di pensare il futuro e sé stessa. In definitiva, una destra impolitica. Non a caso l’unico riferimento valoriale indicato da Gervasoni è il “senso comune”, è un valore impolitico. Fintantoché la destra accetta il discorso di fondo del progressismo, non potrà ambire a un ruolo diverso da questo. Serve quindi rompere questo labirinto degli specchi, questa sorta di doppio legame, dare vita a una destra – per quel che vale parlare di destra – prometeista, sovrumanista, capace di proiettarsi in avanti e darsi una propria visione del mondo.

Blocco Studentesco