di Michele
I conflitti tra la riva sinistra e destra del Reno, tra Francia e Germania, hanno segnato il respiro della storia europea, con l’Inghilterra a mettersi sempre di mezzo per impedire il nascere di una unità continentale. Possiamo quindi capire la “divina sorpresa” con cui un nazionalista di ferro Charles Maurras accolse l’incarico di firmare l’armistizio con i tedeschi del maresciallo di Francia Philippe Pétain e la conseguente nascita della Repubblica di Vichy. Un’affermazione che la dice lunga sugli umori di quel 10 luglio 1940. In fondo, il suicidio della Terza Repubblica coincise con l’affermarsi della Révolution nationale, “Travail, Famille, Patrie” andarono a sostituire “Liberté, Égalité, Fraternité”. L’uomo che aveva respinto a Verdun le truppe del Kaiser, ora – in un paradosso solo apparente – accondiscendeva a quelle di Hitler.
Probabilmente il nucleo più interessante del nazionalismo a cavallo tra ‘800 e ‘900 è quello di essere un mezzo per quei valori che una certa mentalità borghese aveva cercato di disfare. Per dirla con Adriano Romualdi: “Sentiamo la validità dell’idea nazionale come sintesi di valori di sangue e tradizione contro le correnti livellatrici d’un mondo bastardo”. Una visione della Patria o della Nazione capace di allargarsi, fino a toccare l’idea di una civiltà Europea. Non è solamente questione di confini, ma di incarnare una volontà di potenza, una spinta in avanti, un mito da attualizzare. Fuori da quel provincialismo e quella ristrettezza pseudo-familiare con cui si riduce la Patria a un specie di rifugio in cui rintanarsi, a un infantilismo smobilitante e rassicurante, a un pavoneggiarsi senza spina dorsale.
Avendo in mente la Prima guerra mondiale, quella generazione educata nelle trincee, possiamo vedere i semi di quello che succederà dopo: quegli uomini affratellati nel sangue, lo sono anche nel sangue dei loro nemici. In altri termini, si preferisce il coraggio del proprio nemico alla vigliaccheria dell’imboscato. Lo scontro tra i diversi nazionalismi produce un riconoscimento reciproco.
Non stupisce nemmeno la descrizione che fa Henry de Montherlant delle truppe tedesche ne Il solstizio di giugno, trasfigurandole nell’incanto del vitalismo pagano che finalmente si prende la sua vendetta sul cristianesimo. La svastica nazista non è più la semplice insegna di un partito, ma l’antica ruota solare che scalza le mortificazioni della croce.
Il tutto, è ovvio, visto da parte francese accade nella tragedia della sconfitta. Peraltro una sconfitta talmente rovinosa che pare quella di chi non è mai sceso in campo. Così sembrano svanire dalla memoria quanti quella guerra l’hanno combattuta davvero, magari morendoci pure. E la pace con tutte le sue difficoltà quotidiane rimpicciolisce ogni cosa. Ne possiamo respirare l’aria accompagnando nella Parigi occupata il tenente di Sei ore da perdere di Robert Brasillach, tra la fretta delle persone di dimenticare la guerra, i misfatti per sbarcare il lunario, i rari atti di gentilezza e l’indifferenza generale. Insomma, la vita che va avanti nonostante tutto. Più feroce sarà invece la mattanza che seguirà alle epurazioni resistenziali, di cui lo stesso Brasillach sarà vittima sacrificale.
C’è recentemente chi ha paragonato la sconfitta francese a quella italiana. Scrive Stelio Fergola sul Primato Nazionale: “Vichy fu per la Francia ciò che l’8 settembre fu per l’Italia, ma nessuno se n’è mai accorto”. Se si potrebbe accettare la premessa, per così dire, educativa dell’articolo, ovvero contrastare l’auto-razzismo che vorrebbe gli italiani un popolo di vigliacchi e traditori, le conclusioni sono invece da rifiutare. Non solo il paragone non regge, ma anche il metodo: gettare fango su qualcun altro non pulisce, al massimo ci si sporca in due. Coltivare un sentimento anti-francese, parlando di “grandeur di cartone” o mettendo in dubbio il coraggio dei soldati francesi, non restituirà l’orgoglio agli italiani.
Per inciso, è un luogo comune molto americano quello dei francesi arrendevoli e poco inclini a combattere – motivo per cui gli statunitensi gli avrebbero dovuto “salvare il culo” in due guerre mondiale di seguito – ma totalmente falso. Si potrebbero citare esempi infiniti per rendere il giusto onore delle armi ai francesi, ma vogliamo ricordare controintuitivamente la Disfida di Barletta perché in quel caso la vittoria italiana è qualificata proprio dalla virtù e della forza dei francesi.
È così vero che il tentativo di abbassare la Francia non ci libera affatto dai nostri complessi di inferiorità, che nell’articolo in questione è comunque la Francia il metro di paragone in positivo. Tant’è che l’Italia finisce per essere “una Francia che non c’è l’ha fatta” ed è comunque “l’anello debole del gruppo”.
Tornando invece al paragone vero e proprio, la Repubblica di Vichy corrisponderebbe al Regno del Sud, l’invasore tedesco a quello americano, mentre Pétain a Badoglio (allora De Gaulle sarebbe Mussolini?). Per prendere minimamente sul serio questo paragone si deve astrarre quindi dai contenuti e dai posizionamenti praticamente opposti degli interpreti, cosa che però non è senza conseguenze. Pertanto un’analogia fra i due casi sarebbe solamente formale e non sostanziale. Ma anche sotto quest’ultimo punto di vista le cose non sono così semplici. L’armistizio francese arriva a invasione praticamente già conclusa e la Germania già padrona del campo, quello italiano no. Prova ne sia che per vincere militarmente e risalire tutta la Penisola gli Alleati ci impiegano altri due anni. Insomma, si potrebbe dire che i rapporti tra sconfitta militare e cambio di fronte politico sono invertiti nei due casi. È anche vero che oltre al dato bruto dell’armistizio, lo sconcio dell’8 settembre fu dettato per la maggior parte dalla gestione irresponsabile di Badoglio e Casa Savoia della fase di transizione.
Arrivati a questo punto, però, non vogliamo fare l’errore opposto e salvare i francesi per condannare gli italiani. Uscire dal pantano dei complessi di colpa e dalle autoflagellazioni è anzi un imperativo categorico. Non solo per amor di Patria, ma anche perché questi sono figli di mascheramenti, falsità, visioni distorte. Riconquistare il nostro orgoglio di italiani significa anche rettificare la nostra coscienza di sé e conoscersi meglio. Anche nella tragedia della sconfitta, l’Italia ha dato una prova luminosa di sé. Il vero crollo non è stato quello di un popolo, piuttosto quello dell’autorità che doveva reggerlo. O, meglio, non c’è alcuna autorità quando il crollo avviene, perché il Re – l’unico rimasto sul campo dopo essersi sbarazzato di Mussolini e del fascismo, mentre gli antifascisti dal canto loro non hanno una vera presa sulla popolazione – non è all’altezza del compito.
Una testimonianza di ciò ce la offre Carlo Mazzantini nel suo I balilla andarono a Salò, dove tutto questo viene letto anche su di un piano generazionale, con i giovani che si sentono traditi proprio da coloro che dovevano essere il loro punto di riferimento: “Quegli stessi adulti che ieri ci avevano condotti alle manifestazioni, avevano marciato e cantato con noi, sventolato bandiere, applaudito e fatto giuramenti e che oggi invece si mostrano così piccoli, meschini, nelle loro viltà e nelle loro paure, e chiedono un comportamento esattamente contrario a quello che avevano preteso da noi”. A dominare è un senso di smarrimento, di abbandono. Il tradimento è innanzitutto verso sé stessi, poi verso gli alleati. I giovani rispondono mossi da un coraggio quasi istintivo, caricandosi di responsabilità più grandi di loro. Mazzantini probabilmente esagera nella natura impolitica e sentimentale di ciò, ma coglie un dato essenziale. Se proprio dobbiamo ricorrere a paragoni storici, l’atmosfera generale sembra essere quella del primo dopoguerra tedesco, dei Freikorps per come emergono dalle pagine de I proscrittidi Ernst von Salomon.
Se avessimo una sensibilità diversa forse anche noi italiani parleremmo di “coltellata alle spalle” per descrivere la nostra sconfitta. Invece, abituati a volerci più furbi degli altri quella di essere traditori è un’accusa che scansiamo malvolentieri, quando poi nella storia siamo più spesso noi quelli traditi o gabbati. Un caso esemplare è la Prima guerra mondiale, con l’Italia che viene tradita prima e dopo la guerra ma la narrazione più diffusa ci rappresenta come banderuole, sottostimando peraltro il peso italiano nel conflitto.
Come se ciò non bastasse, agli italiani piace esagerare i drammi nazionali, non per un volersi piangere addosso, ma per un gusto per le difficoltà, quasi che ogni vittoria debba essere un riscatto dopo una rovina. È lo schema che, come un contropiede ben eseguito, va da Caporetto porta a Vittorio Veneto, passando per il Piave. Ma così le sconfitte vengono spesso prese troppo sul serio, ingigantite e nell’immaginario comune prendono il posto delle vittorie. Vittorie che peraltro non sappiamo riconoscere le vittorie quando queste non seguono questa scaletta o per le quali ci complichiamo la vita quando queste sono troppo facili. L’ombra che ancora getta sull’Italia l’8 settembre si spiega anche in questo, con l’8 settembre-Caporetto di cui si esagera il peso, il Piave di quanti combatterono fino all’ultimo che viene disconosciuto, e un Vittorio Veneto che non c’è mai stato. La Resistenza, con la sua retorica, ogni tanto prova a vendersi come tale, come una redenzione almeno morale, come un secondo Risorgimento, ma è evidente non lo possa essere. Perfino da un punto di vista lessicale possiamo vederne la truffa: “resistere”, al contrario di “risorgere” – che è il termine perfetto per l’attitudine italiana a questo schema del contropiede – è azione passiva.
Tutto questo ci deve insegnare a prendere le distanza anche dalle nostre sconfitte, a non rendercene prigionieri, non c’è morte della Patria per l’Italia che è invece eternamente giovane e perennemente risorgente. Bisogna coltivare l’eroismo, quel “volontariato sorgivo a mezzo il campo di battaglia” di cui canta un Filippo Tommaso Marinetti morente, scansare le invidie provinciali verso gli altri Paesi e smettere di dubitare del buon cuore degli italiani.
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