di Patrizio
Ha fatto molto parlare di sé l’ultima uscita tutta italiana targata Netflix, Briganti: la miniserie televisiva ambientata durante il brigantaggio postunitario italiano. Lo sceneggiato si ispira ad alcuni personaggi realmente esistiti durante il suddetto periodo storico, con varie rivisitazioni e romanzamenti. I protagonisti sono i membri della Banda Monaco, un manipolo di briganti calabresi ribellatisi all’autorità sabauda rappresentata dal Tenente Colonnello Pietro Fumel.
La serie è molto ben sceneggiata, con un buon lavoro di fotografia e battute ispirate allo stile “spaghetti western” con una buona dose di post-produzione e un’atmosfera cupa alla film di Sergio Leone. I toni sono molto caldi, quasi a voler far immergere lo spettatore nel torrido caldo del profondo sud Italia di metà Ottocento.
Ma non è né di sceneggiatura, né di interpretazione e nemmeno di veridicità dei fatti che vogliamo illustrare in questa recensione: sarebbe quantomeno ingeneroso pretendere attinenza alla realtà storica da uno sceneggiato storico, il quale non si è mai posto come un documentario ricostruttivo.
Come per Napoleon di Ridley Scott, già recensito da Enrico Colonna sul Primato Nazionale, il problema è la falsa propaganda; è il fine di questa miniserie che vogliamo discutere, il messaggio che vuole passare al grande pubblico: se per il primo era la palese propaganda filo-britannica del film, per Briganti è l’ennesima sviolinata revisionista neoborbonica, in buona salsa vittimistica, che trapela da ogni fotogramma di ogni puntata.
I briganti sono tutti quanti dei reietti, da come vengono rappresentati: Filomena de Marco uccide il marito violento per poi darsi alla macchia, “Ciccilla” Oliverio e Giuseppe Schiavone “lo Sparviero” che si uniscono alla Banda Monaco a seguito di un’incarcerazione “ingiusta”, Pietro Monaco che va latitanza dopo la cattura del padre e dopo la fuga a seguito della vile uccisione del patriota Carlo Pisacane. La serie li dipinge tutti come dei poveri innocenti oppressi dalle grinfie del Colonnello Fumel, principale antagonista della serie, nel ruolo del “supercattivo” invasore piemontese
massacratore, – leggasi: oppressione di potere da parte del neonato Regno d’Italia – con il sempre ritornante mito dei “razziatori del nord”. Lo stesso Fumel, all’inizio nella serie spedisce come “punizione” tre contadini del villaggio a combattere per l’esercito italiano, rei di averlo oltraggiato.
Il mito della serie è, forse, la più ripetuta delle bugie neoborboniche: la battaglia per l’Oro del Sud. Tutti i protagonisti della serie si scannano a vicenda per appropriarsene, nella sempreverde dialettica della guerra fra poveri, mentre i “crudeli” piemontesi – e ritorna la retorica del Nord industriale predatore delle fantomatiche immense ricchezze del Meridione – impersonati da Fumel si sfregano le mani osservando dall’alto delle loro ville regali.
Insomma: i soliti piagnistei vittimistici dei neoborbonici impressi su pellicola. Se è vero che la figura di Pietro Fumel fu controversa ed attuò dure repressioni alle rivolte dei contadini, è altrettanto vero che il mito del Sud “locomotiva”usurpato, a cui i crudeli invasori piemontesi hanno rubato le ricchezze – lasciandolo nella miseria – è una falsità storicamente accertata, ispirata ad ogni pubblicazione pseudostorica, esaltando alterazioni storiografiche del Risorgimento a scopo revisionistico. Allo stesso modo, le tesi sull’inventato “genocidio” ad opera dell’esercito sabaudo sono state smentite da ogni rivista professionale del settore.
Una brutta caduta di stile, dunque, da parte della produzione italiana di miniserie storiche dopo l’ottima accoglienza ricevuta invece dallo sceneggiato Mameli, ispirato alla vita dell’autore del nostro Inno Nazionale, non da un punto di vista scenografico ma narrativo.
Noi continuiamo a prediligere una visione autentica del Risorgimento, che fu il primo capitolo di una grande rinascita nazionale, il percorso storico per giungere all’assoluto fine condotto da un manipolo di uomini.
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