Di Jean

Non passa giorno in cui sui giornali o in televisione non si raccontino storie di imprenditori che, pur offrendo lauti compensi anche per mansioni poco qualificate, faticano a trovare giovani disposti a lavorare. Tanto i gestori di stabilimenti balneari romagnoli quanto gli artigiani lombardi lamentano la scarsità di manodopera giovanile. Insomma, pare proprio che ai ragazzi di oggi, siano essi neolaureati, neodiplomati o ancora studenti, del lavoro non importi nulla.

Diversi impresari attribuiscono la colpa di cotanta svogliatezza alla facilità con cui vengono erogati sussidi, Reddito di Cittadinanza in primis. Peccato però che questo, ora abolito dal governo Meloni, era elargito solo ai nuclei famigliari con ISEE inferiore ai 9.360€. Un ventenne che vive con entrambi i genitori lavoratori è con tutta probabilità escluso da questo sostegno. 

V’è poi chi accusa i giovani italiani di essere troppo pigri, troppo selettivi finendoli per confrontarli con gli immigrati africani, sovente descritti come gran lavoratori e assolutamente non pretenziosi. 

A tal proposito si può citare l’allora Elsa Fornero, che nel 2012 invitò le nuove generazioni a non essere troppo “choosy” (schizzinosi), quindi ad accontentarsi di un lavoro qualunque, indipendentemente dalle condizioni lavorative nonché dai propri studi e aspirazioni. 

Non manca infine chi sermoneggia rampognando i giovani d’oggi, a detta loro privi di spirito di sacrificio, accusandoli di volere tutto e subito senza enormi sforzi.

Non di rado chi sputa tali sentenze è cresciuto durante il boom economico di fine novecento. Se ai tempi un ventenne trovava presto un impiego coerente col suo titolo e chi voleva poteva facilmente iniziare a fare impresa, non si può dire lo stesso dei giorni nostri. 

Un ragazzo che si affaccia  al mondo del lavoro oggi  sa già che passeranno diversi anni prima di ottenere un contratto a tempo indeterminato e anche qualora riuscisse ad averlo, è consapevole che la ditta per cui lavora potrebbe chiudere da un momento all’altro. In seguito alla crisi economica globale, in cui apice si è registrato tra la fine degli anni duemila e l’inizio degli anni dieci ma divenuta ormai una crisi permanente, concetti come delocazizzazione, flessibilità e cassa integrazione sono diventati ordinari. 

La nuova generazione di lavoratori  cresciuta in questo periodo storico fin dalla giovane età entra nell’ottica di poter  perdere il lavoro abbastanza facilmente. Considerando poi il fatto che una buona percentuale di mansioni specie quelle meno qualificate sarà presto sostituita da macchine, causando un esponenziale aumento della disoccupazione, viene naturale comprendere le ragioni che spingono molti ragazzi a non applicarsi nella ricerca di  lavoro. 

Altra problematica che un giovane lavoratore  deve affrontare è lo stipendio, ormai insufficiente per poter diventare economicamente indipendente dalla famiglia. A poco sono serviti i miseri aumenti dei salari a fronte del costo della vita dell’ultimo biennio. Posto che una paga base sia di 1300€ , essa non è più sufficiente per potersi permettere di comprare una casa, un’automobile e di far crescere dei figli: cose invece possibili per un semplice operaio degli anni sessanta

L’arrivo poi di milioni di immigrati dall’africa e dall’asia non fa che abbassare i costi del lavoro. Essendo questi disposti a lavorare per pochissimo e senza diritto alcuno, per poter competere con aziende che si servono di manodopera allogena occorre abbassare i costi della manodopera bloccando la crescita dei salari a fronte però di un’inflazione galoppante. Cade così la menzogna che spesso viene ripetuta secondo la quale solo grazie all’immigrazione potremmo pagarci le pensioni dal momento che essi svolgerebbero i famosi  “lavori che gli italiani non vogliono più fare” come i braccianti agricoli o i muratori. Gli immigrati non svolgono professioni ormai scomode ai giovani italiani viziati come molti, anche tra coloro che si autoproclamano “di destra”, vanno dicendo. Semplicemente accettano, essendo privi di alternativa, condizioni lavorative giustamente inaccettabili per noi europei.

Possiamo affermare come lavorare sembra ormai svantaggioso per il ventenne medio e la tanto nominata “gavetta” diventa un qualcosa di irrazionale. È illogico accettare un salario misero per anni, lavorare  anche oltre l’orario stabilito e magari seguire anche corsi di formazione per un’occupazione quasi certamente precaria. Del resto chi troverebbe logico fare tanti sacrifici per un qualcosa che si sa già essere effimero? 

Non v’è da meravigliarsi pertanto se molti giovani disoccupati smettono di cercare un impiego. Con questo non si vogliono giustificare il fatalismo e l’apatia di  questi ultimi. Allo stesso modo, spezzando una lancia a favore dei sopracitati boomer moralisti, non si può trascurare come tra le nuove generazioni serpeggi l’idea che sia possibile arrivare ad accumulare enormi ricchezze senza particolari fatiche. Ma va altresì ricordato che il mito americano del “self made man”, di colui che guadagna enormi ricchezze nel giro di poco tempo, è figlio del boom economico di fine novecento. Se  per anni le generazioni precedenti hanno promesso ai giovani che un giorno si sarebbero arricchiti con pochissimi sforzi, non v’è da stupirsi se quest’ultimi rifiutano di impegnarsi. Le paternali alla gioventù svogliata che vuole tutto e subito e che non è più disposta a rimboccarsi le maniche  lasciano il tempo che trovano così come i patetici sermoni sul senso del sacrificio pronunciati da chi si è arricchito negli anni più floridi.

Da momento di realizzazione personale nonché dovere sociale il lavoro è diventato  una lotta per la sopravvivenza a causa di stipendi da fame e precariato. Non v’è perciò da stupirsi se molti giovani non vogliono più lavorare.