Di Chiara
“L’inferiorità della Destra europea di fronte alle altre forze politiche è da ricondursi, non per ultima causa, alla incapacità di proporre un’alternativa che sia al livello dei tempi. Diciamolo chiaramente: accenti, slogan, simboli e motivi di questa Destra sono ormai qualcosa di superato, spesso di patetico e talvolta di ridicolo.” Queste le prime parole utilizzate da Adriano Romualdi nel saggio “La destra e la crisi del nazionalismo”; parole che a distanza di 50 anni risultano ancora attuali. Considerato uno degli intellettuali più dotati della destra radicale, Romualdi non si tira indietro nella critica all’ambiente politico di cui è parte fin da giovanissimo; nel saggio di poco più di 32 pagine riesce nell’impresa di analizzare le cause della crisi della destra e del nazionalismo italiano e, soprattutto, europeo.
Il problema dell’Europa
Al centro dell’intero scritto pone il problema dell’Europa in un mondo diviso tra liberaldemocrazia e comunismo: le piccole patrie non possono entrare in conflitto con i nuovi colossi economici nati dopo il 1945. Mentre la Prima guerra mondiale – spiega – è stata la “rivoluzione del nazionalismo” (“nell’entusiasmo che suscitò nella gioventù; nella dissoluzione, di fronte ad essa, dell’internazionale socialista; nel costume della vita in uniforme, che essa diffuse, e che rimase, quasi come l’idea d’una guardia perpetua alla nazione, si espresse tutta la forza raggiunta dall’ideologia nazionale”), dopo la Seconda guerra mondiale si è assistito ad un rapido deterioramento dello stesso, che deriva anche dal peggioramento della destra europea di fronte alle altre forze politiche. Mancò all’Italia – al contrario dei suoi alleati – un’impostazione politica rivoluzionaria, la mentalità adatta ad una guerra continentale, imperiale ed ideologica quale sarebbe stata, più che una bega sugli antichi confini.
Nazionalismo europeo
Quindi, per Romualdi solo un nazionalismo europeo avrebbe potuto e potrebbe ancora competere con le grandi potenze politiche ed economiche. È ben consapevole che il mito delle identità nazionali portato dal Romanticismo nel 1800, in opposizione al mito della cosmopoli dell’Illuminismo, ha fatto il proprio tempo: oramai è obsoleto e controproducente parlare di un nazionalismo rivolto alle singole nazioni. Per spiegare l’apice della decadenza delle forze di destra, data la sua formazione di storico, analizza sia il Fascismo che il nazismo, criticando però lo spagnolo Francisco Franco e il portoghese Antonio de Oliveira Salazar: nonostante la longevità dei loro governi non sono stati in grado di radicalizzarsi nelle rispettive società, rimanendo un fenomeno passeggero, senza effetti duraturi nel tempo, soprattutto sposando un autoritarismo di stampo cattolico che nulla aveva a che fare con la Rivoluzione di Mussolini, che al contrario definisce come “la reazione istintiva dei popoli europei alla prospettiva d’esser macinati in una polvere anonima delle internazionali di Mosca, di Hollywood, di Wall Street. Una reazione e un fenomeno europeo, che trionfò pienamente in quei paesi – come l’Italia e la Germania – che avevano sofferto sulla loro carne la cancrena del comunismo e i raggiri del wilsonismo, ma presente in tutta Europa, dalla Francia alla Scandinavia, dalla Romania alla Spagna”. Riconosce quindi al Fascismo uno scopo più importante della Nizza e la Savoia: lo scopo di istituzionalizzare il nazionalismo, tanto da dare vita ad un’internazionale nazionalista, che riuscisse ad opporsi a quella comunista e a quella americana. Per sottolineare il bisogno di un’Europa unita sotto la bandiera del nazionalismo analizza anche la figura di Hitler, che nel Mein Kampf affermò che fare la guerra solo per riavere i confini della Germania precedente al 1914 sarebbe stato un crimine: “Nell’epoca dello sviluppo della Russia e dell’America a formidabili detentrici di materie prime, nessuna autonomia o indipendenza sarebbero state possibili in Europa se il ferro della Lorena e della Norvegia, il petrolio del Ploesti e di Bakù, la siderurgia del Belgio, della Ruhr, della Boemia, del Donbass e dell’Alta Slesia non si fossero trovati nelle stesse mani”. Una necessità vitale, quindi.
La crisi del nazionalismo
Per Romualdi la crisi del nazionalismo non è da ricercare nel 1945, ma nel 1939, quando si doveva scegliere tra USA, Germania o Russia: una neutralità era impossibile per l’Italia vista la sua posizione al centro del mediterraneo, anche se non era pronta dal punto di vista militare e come abbiamo detto prima le sue classi dirigenti non riuscivano a comprenderne la portata. Ma ormai – dice Romualdi – l’Italia, la Francia e la Germania non potranno più essere grandi come stati singoli, ma solo come europei. Un invito ad evitare di ancorarsi ad un nazionalismo obsoleto che sarebbe solo controproducente che al contrario potrà ritrovare la sua legittimità storica solo se saprà adeguarsi alle proporzioni del mondo moderno, nella mutilazione fatta dalla cortina di ferro e nel rifiuto dell’imperialismo. Questo compito non può essere adempiuto dalla comunità europea perché la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e la CEE (Comunità economica europea) mancano di volontà politica: occorre rieducare gli europei alla virtù politica, che i fautori di Yalta avevano cercato di cancellare. Nell’anticomunismo Romualdi riconosce uno strumento fondamentale, soprattutto in un mondo (il suo) dettato dalla volontà di Stalin, Roosevelt e Churchill.
Contro l’antifascismo
Criticando gli accordi di Yalta, non manca di criticare l’antifascismo, dandone una definizione perfetta: “è rinuncia, è viltà, è la supina accettazione della catastrofe del 1945. […] Sempre ci sorgerà innanzi questo antifascismo quando ci sarà da tradire e da rinnegare gli interessi dell’Europa”. Inoltre: “la logica propagandistica di Yalta è l’antifascismo, ossia quel lavaggio permanente dei cervelli impostoci dal cinema, dalla stampa, dalla televisione. Poiché cos’è mai questo antifascismo se non il continuo tentativo di nascondere Yalta, di nascondere agli europei che nel 1945 non sono stati “liberati”, ma venduti e spartiti? Che cos’è questo antifascismo se non il tentativo di diseducare gli europei a quelle virtù morali e militari che permettano loro di riconquistare l’indipendenza? Che cos’è mai se non l’alibi di cui i Russi han bisogno per tenere alla catena l’Europa dell’Est e gli Americani per giustificare di fronte alla storia il vergognoso mercato di Yalta?” Da queste ultime frasi è possibile delineare le basi del suo altro saggio “Idee per una cultura di destra” in cui, oltre a spiegare cosa sia le destra e cosa voglia dire essere di destra, delinea le basi per la nascita di una vera e propria cultura di destra, che neanche il fascismo è riuscito a sviluppare. Infatti, lo critica poiché, nonostante l’intervento mirato sulla cultura di Mussolini non è riuscito a radicalizzarsi nella società italiana. Identifica nella nascita di case editrici, nella stesura di nuove opere, nella televisione e nella cultura, la base per una nuova destra, che mai più dovrà essere stretta nelle catene imposte dalle interazionali socialiste e capitaliste. Che sia stato un intellettuale innovativo e lungimirante è indubbio e oggi, vista la palese sottomissione della destra alle internazionali comuniste e capitaliste, è fondamentale lo studio e la riscoperta di Romualdi, il cui contributo a distanza di 50 anni continua ad essere attuale.
“Tutti gli irredentismi sono invecchiati. Se ne ricordino quelli che pretendono di incatenare i giovani a un nazionalismo che è quello di ieri, non quello di domani”.
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