di Enrico

No, Moby Dick non è un mattone mascherato da libro per ragazzi.

Alzi la mano chi non ha mai sentito almeno una volta affermazioni di questo tipo. È molto difficile inquadrare il romanzo di Herman Melville nei generi classici della letteratura. Forse questo è dovuto all’estrema complessità di questo testo di metà Ottocento: è un romanzo d’avventura o un romanzo sula religione o un resoconto “giornalistico” molto dettagliato sulla vita dei cacciatori di balene nell’Ottocento? Probabilmente è tutte queste cose insieme o nessuna di queste.

Spesso il capolavoro di Melville viene indicato come il punto d’avvio del periodo culturale noto come “American Renaissance”, il rinascimento americano che annovera tra i suoi esponenti poeti del calibro di Walt Whitman. Ma, oltre a questo, le influenze che questo romanzo porta con sé sono molto più complesse e variegate.

Innanzitutto, appaiono evidenti molti temi ereditati direttamente dal romanticismo a partire da una delle due figure principali della narrazione: lo squilibrato e assetato di vendetta capitano Achab. Egli è infatti, da un lato un “eroe romantico” a tutti gli effetti che sfida la forza della natura e il potere divino (incarnati dalla balena bianca), come un moderno titano, ma dall’altro è l’archetipo dell’infaticabile disperato: talmente accecato dalla sete di vendetta nei confronti dell’animale che l’aveva mutilato della gamba tempo prima, da non capire che la sua è un’impresa impossibile. Come Icaro che, inebriato dall’esperienza del volo, si avvicina troppo al sole e precipita nel mare.

L’altro aspetto profondamente romantico del libro è naturalmente la rappresentazione che viene fatta della natura, vista come l’esemplificazione del Sublime: qualcosa che ti può uccidere ed è allo stesso tempo estremamente affascinante, come la sensazione che i marinai provano vedendo lo spruzzo della balena. Una sensazione di terrore mista a piacere.

Non è un caso che il simbolo della natura, la balena, venga descritto come insolitamente e spaventosamente bianco: la bianchezza della balena, il suo colorito neutro, sono il simbolo dell’indifferenza della natura nei confronti dell’uomo.

Questa dimensione romantico-titanica trova poi sfogo invece nell’aspetto biblico-religioso di questo libro. Pensiamo al protagonista, al suo nome e all’iconico incipit del romanzo: Call me Ishmael, Chiamatemi Ismaele. Nel racconto biblico Ismaele è un figlio illegittimo di Abramo che viene esiliato; dunque, dicendo “Chiamatemi Ismaele”, Melville ci sta dicendo “chiamatemi esiliato”, “chiamatemi girovago” o “chiamatemi avventuriero” se si preferisce.

Altri richiami religiosi si notano ad esempio in una scena dei primi capitoli: quando Ismaele, accompagnato dall’amico ramponiere Queequeg, va a sentire il discorso del predicatore quacchero rivolto ai cacciatori in partenza: trattandosi di una predica rivolta ai balenieri, accortamente Melville fa raccontare al predicatore la storia biblica di Giona, punito da Dio per mezzo di una balena.

Nella simbologia di Moby Dick, questo è un tema ricorrente: l’associazione della balena con la forza divina che può spazzare via gli esseri umani come e quando vuole, un Leviatano. Ma se nel racconto biblico Giona, dopo tre giorni e tre notti in cui chiede perdono a Dio, viene risputato fuori dalla balena, in Moby Dick non c’è il pentimento. Il capitano Achab vuole morire dando la caccia alla spietata balena: Achab sta fondamentalmente dando la caccia a Dio.

Lo stesso Dio che anni prima non gli fece neppure la “cortesia” di ucciderlo direttamente, ma lo costrinse a girare con una gamba, neanche fatta di legno ma di osso di balena: a questo punto il vecchio capitano non ha più nulla da perdere e disperatamente si getta anima e corpo nella ricerca della vendetta per il male subito.

Il Male in questo senso è forse il vero protagonista del romanzo: infatti, lo stesso Melville definiva il suo Moby Dick “il libro malvagio”. Il male qui rappresentato è sia quello commesso dagli uomini che quello commesso dalla natura. Un male che però l’autore sta molto attento a non connotare emotivamente, a non giudicare dal punto di vista valoriale.

Insomma, alla luce di quanto abbiamo detto, siamo proprio del tutto sicuri che questo capolavoro debba ancora essere riduttivamente bollato come “libro d’avventura per ragazzi”?