di Centro Studi Kulturaeuropa
Nell’articolo pubblicato il 24 ottobre scorso su Kulturaeuropa a firma di Francesco Ingravalle ed intitolato “Europa : Certezze, Dubbi e Possibilità”, l’autore fa una disamina critica e come sempre centrata sulle possibilità di sviluppo di un‘Unione politica europea che colmi le attuali lacune in tal senso. Individua, difatti nel Welfare e nel Lavoro, il possibile incipit che potrà diventare il nocciolo di un‘ipotesi di Unione che vada al di là del semplice “fatto” economico.
Crescere nel welfare
Scrive infatti il professor Ingravalle al termine del suo interessante articolo: “Questo è lo spazio in cui l’Europa potrebbe crescere, riprendendo lezioni del passato, del welfare degli anni Trenta e partendo dal principio secondo il quale “cittadino europeo” è soltanto chi lavora, e che Europa è soltanto quella forma istituzionale che dà lavoro. La compattezza sociale genera la compattezza politica. Lo Stato europeo, lo Stato federale europeo, non può che essere “Stato del lavoro”. Ma per essere questo, esso deve iniziare a costituirsi come stato del welfare. E, a questo punto, avrà bisogno di un nuovo Trattato, molto diverso dal trattato del 2004 e del 2007″. Ecco, in questa frase è racchiusa una via percorribile che completi la parte economica e ponga inizio alla costruzione di quell’Unione politica, senza la quale tutti i dossier internazionali sul piatto oggi non trovano adeguate risposte: dall’Ucraina all’immigrazione per arrivare alla Palestina. Ma come procedere nella via indicataci dal Prof. Ingravalle? Quale retroterra culturale è necessario per trovare forme di rappresentanza politica che diano forma a quella “compattezza sociale” presupposto per uno Stato Europeo del Lavoro, che a sua volta riassuma la “compattezza politica” di cui si sente la necessità?
Unicum sociale
A ben guardare il modello di “Stato sociale” in Europa dai tempi di Bismarck, attraverso le esperienze europee che nella loro molteplicità e differenze che hanno attraversato i diversi paesi – sia con il contributo del Fascismo che della socialdemocrazia nei paesi nordici e della dottrina sociale della Chiesa – rappresenta tuttora un unicum nel mondo globalizzato a trazione americana e non solo. Sopravvissuto a due guerre mondiali, rimodellato nelle esperienze dei Governi di centrosinistra degli anni ’60 e ’70 in Italia, nella socialdemocrazia e nella dottrina cristiano sociale tedesca, nell’esperienza scandinava e nella tradizione sindacalista francese, a tutt’oggi non conosce eguali nel panorama mondiale. Se guardiamo il rapporto tra il cittadino/lavoratore negli Usa , in Russia o in Cina, esso è un rapporto di subordinazione molto accentuata verso la Company o lo Stato , senza un filtro di “mediazione sociale” che si esprima attraverso una “cultura partecipativa” che pur messa a dura prova dalla frammentazione dei diritti dei lavoratori, sembra resistere nel suo “nocciolo duro” solo nel Vecchio Continente perchè intrisa di una cultura politica e civile di lunga data. Si obietterà, con fondamento, che attraverso il massiccio ricorso alla robotica, alla digitalizzazione e all’AI tutto questo sarà un ricordo del passato e che già oggi la flessibilità e la precarietà dei lavoratori e dei lavori è un dato che mette in crisi ulteriore quello che rimane dello “Stato Sociale”. Non solo: il ricorso a manodopera extraeuropea che in Paesi come Francia e Germania è ormai un dato acquisito da almeno tre generazioni pone un problema rispetto alla “capacità politica e culturale” di rappresentanza in un quadro più ampio anche di queste istanze?
Il lavoro si trasforma
Procediamo con ordine: il lavoro in quanto tale non sparisce ma si trasforma. Così come dalla rivoluzione del telaio si è passati al modello fordista per poi arrivare all’operaio sociale e poi al brusco ridimensionamento della produzione di fabbrica, ciò non ha comportato l’espulsione di milioni di persone dal ciclo lavorativo, ma la loro riconversione in altre modalità lavorative. Che poi queste modalità di sfruttamento intensivo dei lavoratori sia andato sempre peggiorando è un dato assai discutibile e dipende dalle tipologie di lavoro: non riteniamo che un lavoratore di fabbrica o minerario oggi stia peggio di 40 anni fa. Invece è cambiata la coscienza collettiva dei lavoratori, che non si percepiscono più come “comunità di lavoro” che è pilastro edificante dello Stato, ma semplicemente dei produttori/consumatori. Su questo dato la Tecnica c’entra poco, come in tutte le innovazioni del ciclo di produzione. Su questo dato, invece, una “Cultura della Partecipazione” può fare molto e come ben delineato nel volume “Europa-Accelerazione-Potenza“ a cura del Centro Studi KulturaEuropa (edito da Passaggio al Bosco), può e deve essere il volano per una riconnessione “Lavoro-Cittadinanza-Europa” che può costituire un fattore di aggregazione anche per la manodopera extracomunitaria, in una chiave prospettica Sovranazionale. Ergo, se la “compattezza sociale” è il presupposto della “compattezza politica” e lo Stato Europeo non può che percepirsi come Stato Europeo del Lavoro, il processo “federale” deve passare necessariamente attraverso un’armonizzazione delle normative di welfare in Europa così come attraverso la presa di coscienza dei lavoratori europei che l’Europa può rappresentare un‘opportunità materiale di rappresentanza dei loro interessi, sin nelle più alte istanze partecipative. Oggi la rappresentanza politica è in crisi profonda, la “rappresentanza sociale” invece attende solo di essere manifestata e non dispersa ed è proprio da questa che può partire un Trattato per un’Europa Sociale e del Lavoro che potrebbe rappresentare – finalmente – un primo passo importante per la successiva ed auspicabile Unione politica. Un’unione che sappia distinguersi dal globalismo anonimo di stampo Statunitense e Cinese; che sappia offrire una via rivoluzionaria e civile rispetto ai modelli schiavisti o para-schiavisti diffusi in molte aree del Mondo.
Blocco Studentesco
Commenti recenti