di Patrizio
Per l’articolo di oggi, abbiamo avuto la fortuna di intervistare Guido Taietti, mente dietro a Progetto Razzia, al momento uno dei fenomeni comunicativi più interessanti dell’area non conforme.
Caro Guido, partirei con il chiederti di presentare la tua creazione: che cos’è Progetto Razzia?
Progetto Razzia è un laboratorio politico il cui fine è, nell’epoca della smobilitazione politica, rimobilitare e ripoliticizzare il discorso pubblico.
E per farlo, siccome ritengo che siano finite le condizioni oggettive che spingono le masse alla partecipazione politica, rimane solo di utilizzare variabili soggettive: in breve cerco di farlo rendendo pop la politica, rendendo pop autori radicali e rendendoli più fruibili.
Questo ad un livello più generale ed “esterno”.
Ad un livello più politico e militante invece, come laboratorio politico, PR si pone l’obbiettivo di portare alcune riflessioni all’interno del mondo della destra radicale italiana, ma possiamo anche dire “destra radicale tout court”.
La prima e più importanti di queste riflessioni è concentrarsi su quali saranno le conseguenze della possibile fine della dialettica “Capitale/Lavoro”. Il Capitale per un insieme di ragioni pare aver raggiunto un certo grado di controllo della Produzione per il quale può cominciare quantomeno a teorizzare di non aver più bisogno del Lavoro (perché lo trasforma in “manodopera a disposizione”? Perché lo sostituisce con la Tecnica?) e noi vogliamo riflettere e far riflettere attorno a questo problema e a queste conseguenze. La prima delle quali crediamo sarà la probabile fine della partecipazione delle masse alla politica ed il ritorno della politica ad “affare delle élites”.
Come nasce Progetto Razzia?
Anni fa davanti ad una birra si discuteva con camerata di aprire una sorta di fanzine. L’idea di fondo era prendere tutto quel che ci piaceva ma che teoricamente non era nostro come gruppi musicali, autori, sigle politiche nel terzo mondo e “appropriarcene”. Leggerle con i nostri occhi e spiegare perché e cosa ci potevamo tenere, come potevamo utilizzarle. Il nome che volevamo dare a questa rivista era “Progetto Razzia” perché bene comunicava la nostra idea di depredare un mondo del quale non ci interessa nulla prendendo quel poco di buono e utile che ci poteva essere.
Poi il progetto si arenò, presi un po’ da questioni più immediate, non ultima una militanza piuttosto integrale che la nostra gioventù ai tempi ci permetteva. Quel camerata, che era Simone Riva, poi ci lasciò prematuramente e tragicamente per un incidente in montagna e non mi pareva proprio che l’idea potesse avere un senso a quel punto, senza di lui. Tuttavia negli anni ho continuato a pensare alle riflessioni di fondo e anche se tecnicamente il formato della fanzine non mi interessava più, continuavo a trovare la concezione di fondo estremamente sensata.
Anzi l’idea è rimasta, si è incastrata con altre riflessioni che ho fatto in questi anni e quando ho poi voluto creare il canale Youtube non ho potuto fare a meno di chiamarlo Progetto Razzia, come scrivo nella dedica del libro “Enciclopedia della Politica Underground”, mi è sembrato che in qualche modo fossi riuscito a dare forma e mettere a terra quell’idea che avevamo avuto tanto tempo fa e volevo che il nome rimanesse lo stesso per ricordare Simone.
Perché tutta questa attenzione ad autori “non nostri”: di fascinazione in fascinazione non c’è il pericolo di cadere nel rossobrunismo o comunque di perdere un po’ il proprio centro?
Considerata l’asfissia e la stasi che attraversa il mondo politico radicale, o meglio la politica in generale, direi che meglio fare che non fare.
In realtà penso che il processo di diffusione di autori e idee non nostre ma analizzate con occhi nostri che fa PR non sia, come si potrebbe pensare, un progetto centripeto e dispersivo, ma centrifugo e accumulativo. Cioè da un lato si agganciano e si interessano persone che con le nostre analisi non sarebbero mai venute a contatto e da un lato si mettono a disposizione dei nostri idee e autori che non sono abituati a padroneggiare e conoscere. Il che, dal punto di vista della preparazione politica, non può che far bene.
Un po’ come quando ti alleni in qualche arte marziale: impari un sacco di movimenti, di tecniche che poi sai non utilizzerai mai in uno scontro reale che, al 90% è sempre composto da uno-due e qualche trascinamento a terra, ma quei movimenti, quelle tecniche servono per portare la tua confidenza con la tua marzialità ad un altro livello di consapevolezza. Anche se poi quel calcio a farfalla non lo tirerai mai in tutta la tua vita, il solo saperlo fare, ti obbliga ad essere ad un altro livello rispetto all’avversario medio.
Poi più precisamente sul termine “rossobrunismo”: non credo che letteralmente esista niente del genere. Se è un termine che ha un senso in alcuni precisi contesti storici (la Germania ai tempi di Weimar, la Russia post crollo dell’URSS) non ne ha altrove e sicuramente non ne ha oggi da noi. Non ha un contenuto ma indica una sovrapposizione tattica temporanea e spesso casuale che non credo meriti una categoria in sé il cui fine è soprattutto confondere e squalificare; come non avrebbe senso, ad esempio, parlare di azzurro-brunismo per riferirsi al periodo in cui storicamente parlando il Fascismo dialogò coi liberali.
Meme e paradigmi: mi pare che ogni volta che svisceri un autore, o un testo, cerchi sempre di inserirlo in un qualche paradigma, in una qualche spiegazione del mondo. È corretto? Perché tieni a questo approccio?
Vero. Diciamo che, anche se per “agganciare” l’attenzione del pubblico cerco di essere pop, con un meme, con qualche battuta, con qualche provocazione, l’idea di fondi di PR è sempre però quella di “politicizzare” e “mobilitare” quindi poi occorre restituire complessità ai temi trattati.
In particolare, cerco molto la sistematizzazione: sia quando tratto gli avversari, sia quando tratto temi nostri. Credo che uno dei grandissimi vantaggi strategici che ha avuto a lungo il mondo marxista-leninista fosse una “dottrina”, un sistema che aiutasse il singolo militante disperso nel mondo a riconoscere e a muoversi attorno a categorie più o meno omogenee e a tutto il blocco dei militanti o anche solo simpatizzanti di sorta, tramite questo sistema, di procedere e convergere poco per volta verso una meta o almeno una analisi vagamente condivisa. Nel nostro mondo questo processo accade spesso in modo quasi inconscio, per categorie antropologiche, ma credo sia importante svilupparle, estrarle e sistematizzarle. Evitando al contrario il pensiero disperso, puntale che è tipico dei movimenti di destra democratici che finendo per attivarsi su singoli temi e singole battaglie ma senza una narrazione di fondo complessiva, finisce per essere sempre reattivo ed in definitiva perdente.
Nel tuo libro “Stregoneria Politica” tratti vari temi, tra cui la polarizzazione del dibattito. Come la vedi applicata all’attuale situazione dell’escalation israelo-palestinese?
In generale la polarizzazione rende difficile approfondire i concetti, ma semplifica la mobilitazione. Occorre capirne il funzionamento per “usare la polarizzazione” senza esserne usati.
Come Progetto Razzia, ad esempio, cerchiamo sempre in fase di analisi di restituire complessità ad un autore, ad una idea, ad un sistema, tuttavia bisogna essere consapevoli che spesso, soprattutto quando si parla all’esterno la semplificazione serve. La “memizzazione” serve.
Quando comunichiamo e facciamo politica all’interno dell’ecosistema social viviamo una polarizzazione ed una semplificazione che, ad esempio, gioca contro di noi: pertanto dobbiamo cercare di restituire profondità alle cose e abituarci a cercare la nostra famosa “terza via” perché, frequentemente, le due opzioni offerte dalla polarizzazione in mano ai nostri avversari, sono entrambe sbagliate.
Ma allo stesso tempo, dicevamo, dobbiamo imparare a usare la polarizzazione in modo offensivo per diffondere i nostri punti di vista. L’approfondimento serve a noi per capire, la polarizzazione spesso per agire. E ovviamente dobbiamo ricordarci che, da soldati politici, abbiamo un dovere verso la verità, ma un dovere più grande verso la Rivoluzione.
In “Enciclopedia della Politica Underground”, ultimo libro che hai scritto, tratti anche un fenomeno conosciuto dell’Area anni fa, come Svart Jugend. Che analogie ci vedi con Progetto Razzia?
Svart è stato un mito. Ha anticipato di anni alcune riflessioni e successi comunicativi dell’alt right come la “post-ironia” che serviva però per affermare un messaggio. Si diceva dell’alt right americana che era “fascismo ironico che però rimaneva fascismo” e Svart lo fece, completamente da solo, molto prima e molto meglio di chiunque altro. Progetto Razzia ha alcuni tratti in comune con l’avventura Svartiana credo, principalmente l’idea di ricreare un ecosistema, una sottocultura, una simbologia che faccia circolare in modo divertente, giocoso, memetico idee pericolose. Pericolose perché vere. L’uso della battuta, del meme, della giocata di sponda non fini a sé stesse, non solo a fini estetici, ma anche e soprattutto per segnare un punto funzionavano dieci anni fa e funzioneranno anche tra dieci anni.
Il tuo video più virale su YouTube parla dell’Unabomber. Come mai ti sei interessato al personaggio, e cosa ti ha colpito di più della sua critica?
Non ricordo neanche la prima volta che mi è capitato in mano il famoso “Manifesto di Unabomber”, ma parliamo oramai credo di venti anni fa. Probabilmente ai tempi dell’università. Curiosamente allora non mi fece molto effetto mentre tornai a dedicargli attenzione negli anni successivi. In realtà nel tempo l’ho trovato più attuale di quanto non lo fosse ai suoi tempi.
Non tanto per la sua analisi sul rapporto tra Tecnica e Libertà, che paradossalmente potrebbe anche essere la parte meno utilizzabile, quanto per le sue riflessioni sulla socializzazione dell’essere umano di sinistra e per l’attenzione alla variabile psicologica / antropologica nel discorso politico.
Come molti autori ovviamente va preso con le pinze, capendo cosa può essere mobilitante e utile e cosa smobilitante e inutile. Ma ovviamente questo non ci ha fermato dal dedicargli attenzione, dopotutto come ripetiamo alla fine dei nostri video molte volte, il senso di Progetto Razzia è anche depredare autori portando con noi, in una vera e propria razzia, quel che ci può essere utile per attraversa la post-post-modernità e lasciando a terra tutto quel che ci rallenterebbe.
Su Progetto Razzia sei riuscito ad estendere autori radicali a un pubblico più generalista, rendendoli più pop. Quali tecniche comunicative funzionano maggiormente nel tuo progetto?
Benchè l’idea di fondo sia piuttosto semplice, la sua realizzazione nei fatti ha richiesto un certo grado di analisi e preparazione. Anche di malizia se vuoi. Il pensiero afferente al mondo della destra radicale/fascista/nazional-rivoluzionaria (chiamalo come ti pare) è immediatamente censurato, ma in modo diverso e secondo logiche differenti per ogni social. E’ stato quindi necessario, un po’ tramite la comprensione un po’ tramite tentativi, capire come tarare il messaggio su ogni diversa piattaforma.
Su Youtube spesso, ad esempio, analizzo autori e personaggi non “nostri”: ma il valore politico dell’operazione sta nel fatto che gli do una interpretazione “nostra”. Quando analizzo Mario Mieli, il noto teorico LGBT, chiaro che non sto mostrando un modello, ma sto dando di massima una chiave interpretativa alternativa a quella sovversiva, di sinistra, che fino a poco fa era l’unica che si poteva trovare su YT. Su FB tengo solo analisi relativamente serie e/o lo uso per segnalare gli appuntamenti perché la censura è scriteriata e rende impossibile cercare di fare un lavoro minimamente serio. Su Instagram cerco di rimanere sul giocoso e di essere il più indiretto possibile, ma in modo che si arrivi a capire cosa voglio comunicare. Paradossalmente Telegram che garantirebbe maggiore libertà espressiva ho preferito, per il momento, utilizzarlo come collettore di notizie e analisi in modo che vi si possa approcciare anche un pubblico più “maturo”.
Ma l’opera di contaminazione di Progetto Razzia è solo agli inizi: il vero lavoro è finire ora su canali e spazi altrui. Come in questa intervista ed in altre: far circolare il virus su blog, altri canali, altri influencer senza aver troppa paura di contaminarsi, dopotutto chi è ben radicato nel proprio centro può reggere una maggiore tensione centrifuga diceva un noto personaggio della destra radicale italiana decenni fa.
Qual’é l’autore di cui ti sei divertito di più a scrivere in Enciclopedia della Politica Underground?
Il paragrafo che mi ha divertito di più è probabilmente quello sulla Nation of Islam: questa setta religiosa che nel mondo afroamericano è riuscita a diventare praticamente un fenomeno di folklore convertendo persone del calibro di Cassius Clay. Mi hanno restituito una visione della cultura afroamericana USA molto più complessa e per certi versi preferibile rispetto al mondo Black Lives Matter che i media si ostinano a raccontarci come “fenomeno epocale”.
Tuttavia, la voce di cui sono più orgoglioso di aver scritto è la voce che riguarda la misteriosa scienza della Demodoxologia: una scienza “dell’opinione pubblica” nata sotto il fascismo, poi rapidamente divenuta durante la prima Repubblica, appannaggio dei nostri servizi segreti ed ora un po’ scomparsa dai radar. Non credo sia mai stato scritto nulla di pop su questa scienza e sono felice di poterla riportare all’attenzione del grande pubblico o quantomeno del pubblico “giusto”.
Qual è il futuro di Progetto Razzia
Ora che abbiamo costruito una base relativamente coerente e solida è il momento dell’espansione.
Sia in senso orizzontale, quindi puntando ad avere maggiori numeri; sia in senso verticale e quindi targetizzandoci su diversi social sfruttando le diverse possibilità di gestire la complessità che le diverse piattaforme hanno.
Per quanto possibile lavorare e diffondere nostro materiale anche all’estero, come in realtà abbiamo cominciato a fare già ad inizio 2023 soprattutto nel mondo anglosassone.
Fortunatamente possiamo contare su un pubblico che è praticamente una comunità e quindi autonomamente vediamo i nostri seguaci più accaniti che diffondono sui gruppi i nostri video, ci taggano o ricondividono ovunque su Twitter e siamo cautamente ottimisti.
Poi chiaro prima o poi bisognerà anche organizzare un evento live, magari inserito in qualche evento d’area maggiore, per fare una bella chiacchierata di persona con il pubblico più caldo.
In ogni caso, diffondere il virus, trasformare definitivamente PR non in un canale, non in un media, ma proprio in un ecosistema dotato di una propria inerzia non necessariamente centralizzata ma che proceda quasi “sulle proprie gambe” rimane l’obbiettivo finale.
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