di Pio Filippani Ronconi – Trascrizione di una conferenza tenuta con l’Associazione Fons Perennis
Il fatto che io parli della romanità e soprattutto dei Romani dipende dal fatto che si presenta in questo momento, in questo particolare periodo direi di marciume, di putrescenza di quelle che sono le strutture anche statuali di una nazione come la nostra, un’urgenza: quella di abbeverarsi alle fonti della nostra gente, della nostra razza e delle nostre idee in modo da poter trarre non solo l’incitamento – il che è abbastanza normale – ma trarre una specie di guida interiore che agisca dentro di noi come fantasia morale. “Fantasia morale” significa agire senza delle idee preconcette, significa “sentire”… Ciò che mi impelle a parlare dei Romani è quindi una constatazione: l’origine dell’essere romano è veramente un mistero. Il che non vuol dire “i Romani sono una varietà delle culture create dai popoli arii”, non basta questo. Perché di popoli arii l’Europa era piena. Avevamo i Celti sulle spalle, di là dai Celti c’erano i Germani, gli Illiri, i Balto-slavi e via discorrendo. Certamente gli Umbri avevano una cultura di gran lunga superiore a quella dei Romani, anche una cultura magico-religiosa profondamente articolata. Chi legga con attenzione le Tavole Eugubine resta semplicemente stupefatto di questa meravigliosa cultura interiore per cui la Terra, il Cielo e gli uomini formavano un’unità. Un’unità che funzionava.
L’anomalia romana
Ora, i Romani sono veramente una specie di cosa strana, sono un’anomalia. Perché noi alla radice del popolo romano non troviamo tanto una razza quanto un “foedus”: un atto spirituale e un’alleanza. Anche le storie tradizionali che narrano di Roma raccontano che c’erano i Titii, i Luceres e i Ramnes, che erano tre popoli differenti. I Titii erano certamente degli umbro-sabini, i Ramnes erano casa nostra, erano i Romani, i Luceres erano probabilmente degli Etruschi (Luceres ha la stessa radice di Luchmon, che è Lucumone). Quindi noi non abbiamo un fenomeno, diciamo così, terrestremente naturale… da questo terreno viene fuori abitualmente questa pianta. La pianta romana è un’anomalia. Perché la pianta romana pur agendo e muovendosi con la perfetta normalità – seppur sovraccaricata – è riuscita a sviluppare delle attitudini propriamente spirituali che la loro “incultura”, specialmente rispetto ai popoli che gli erano vicini (Etruschi, Umbri, Greci ecc…) avrebbe reso impossibile. Era veramente un elemento molto particolare e molto speciale. Possiamo dire che i Romani erano figli di un destino. I Romani son nati praticamente da una leggenda. Da una leggenda che è stata contestata già nell’antichità, ma non è stata mai demolita. Adesso dagli scavi recenti fatti a Sant’Omobono poi ad Ardea ed altri luoghi come Lavinio, si è visto che la famosa “favola di Enea” era vera. Io stesso son stato un giorno con molta fortuna nelle viscere del Campidoglio, ho trovato dei cocci che erano praticamente dei cocci micenei. Quindi Roma esisteva prima ancora di essere. Lo stesso nome “Roma” non sappiamo cosa vuol dire. Scartata l’etimologia dorica di forza, Roma potrebbe corrispondere al greco “reuma” che vuol dire lo scorrere del fiume. Qualsiasi radice: io potrei anche dire che Roma significa “l’urlo” dalla radice sanscrita ru, e via discorrendo. Ma c’è veramente un mistero. E il mistero è tanto più profondo tanto più ci rendiamo conto che i Romani erano delle persone perfettamente normali. Erano uomini profondamente religiosi. Noi diremmo, o qualcuno direbbe – sto tirando fuori Aristotele – che i Romani erano molto superstiziosi. Sì, perché erano superstiziosi, direi, proprio perché presso di loro tutto quello che era retaggio (eaque supersunt) era stato da loro accolto ed elaborato. Ma pensate il miracolo straordinario di questo popolo che dal 509 a.C. quando i Re furono espulsi fino più o meno al 250 a.C. ha cambiato in tale modo la propria lingua da far dire a Jacopo Devoto che la lingua di Roma è più mutata in quel periodo – periodo in cui eran Romani non son stati dominati da nessun altro popolo – molto più cambiata in quel piccolo periodo che da allora a oggi. Nel senso che un uomo di trecento anni avanti Cristo, duecento anni avanti Cristo, riuscirebbe, con un po’ di attenzione, a capire il nostro italiano. Mentre non avrebbe capito il suo antenato di trecento anni prima. Eppure c’è una continuità. Non si è spezzato questo nastro. Ora io non è che dica questo per dire “Figlioli cari, nos possumus equidem latina eloquia possumus autem italicae colloquiare”. No, non è questa la cosa importante. Quello che è importante è il fatto che quello che conta della romanità è il suo spirito. E soprattutto quello che conta per noi è quello di ritrovare quel filo occulto che ci permette di collegarci con gli autori della nostra civiltà. Indipendentemente se noi, poi, personalmente siamo Longobardi di origine, o Goti o quello che sia. L’essere romano significa essere una razza spirituale. È un atto dello spirito l’essere romano. Un atto dello spirito che, poi, scendendo nella profondità, ne permea l’anima. Dal nous, dallo spiritus si scende nell’anima e dall’anima foggia anche il corpo.
Una potenza magica
Ad un certo momento, in seguito proprio a uno di quei mutamenti – che sono mutamenti storici, politici, razziali e talvolta addirittura climatici – ad un certo momento c’è stato un grande rimescolamento in una zona del Mediterraneo, la zona orientale, che si è configurato praticamente nelle successive distruzioni della città di Troia. E il crollo – o meglio detto, proprio la frana – di questa civiltà antica che veniva sopraffatta da un’altra civiltà indoeuropea che era la civiltà greca. La civiltà greca ancora a livello puramente barbarico. I greci venivano dal nord, stavano completamente nudi, o seminudi, e deridevano i Traci e i Frigi, come li chiamavano madentes myrrae, che gocciolavano di mirra, portavano le brache e la tunica dipinta in testa. E questo crollo ha portato una risonanza. Una risonanza che è giunta fino alle nostre coste. Ora molti possono dire “È una semplice leggenda, è una favola. Il popolo latino, il popolo romano si son formati naturalmente per commistioni, per ragioni economiche, e via discorrendo”. Quindi le ragioni cosiddette naturali. Però vi dico una cosa: la natura è la linea orizzontale, l’uomo è una linea verticale. Che noi siamo cresciuti su questo terreno di cultura è anche ammissibile. Però l’orientamento della romanità è una cosa totalmente differente, perché l’orientamento dell’uomo romano era un orientamento volto a consacrare in primo luogo lo spazio dove viveva; i rapporti sociali con i suoi con-Romani, gli altri Quiriti; e soprattutto essere in rapporto costante con gli Dèi dell’Alto e gli Dèi del Basso. Però il simbolo è qualcosa di più. Il simbolo è praticamente il risvegliatore di una potenza magica. I Romani si sentivano in quel momento, il ponte era chiuso, le porte della città erano chiuse, i Romani si sentivano tutti conclusi come se fosse una cerchia magica. Loro evocavano il potere primordiale della stirpe, il quale avrebbe indicato loro che cosa dovevano fare. Quando il romano antico guardava il cielo distingueva la sinistra dalla destra, il sud, il nord, l’est, l’ovest eccetera, ma lo fa con un atto sacro, che è un atto magico. C’è praticamente una “adeguatio animi ad re”. Vi è lo spirito interiore che si plasma e si modella al mondo che ha attorno. E quindi questo mondo viene a far parte di Sé medesimo. Chiunque di noi che sia salito sul Palatino o sia andato sulle nostre montagne tante volte avrà avuto il senso del suo rapporto profondo con lo spirito dei luoghi. E lo spirito dei luoghi è anche semplicemente quello di un piccolo ruscello che corre giù per le montagne. E noi sentiamo talvolta che questa terra nella quale riposano i nostri antenati, sulla quale si ergono gli edifici fatti da essi – pensate all’Istria alla Dalmazia, che sono le più belle regioni del Mediterraneo, con tutti quegli edifici ormai diventati inutili a cui vorremmo ridare voce – noi sentiamo che la loro esteriorità fa parte della nostra interiorità.
Il senso della terra
Noi abbiamo allora l’immagine del Rex in cui i poteri civili, militari erano congiunti, che era il rappresentante di tutto questo popolo non sorto naturaliter da una razza animale bensì sorto per un foedus, unito, proprio fatto assieme, riunito per una parola di fedeltà data l’uno all’altro, il quale determina lo spazio nel quale si trova. Questo è la cosa meravigliosa dei Romani: il fatto che i Romani conquistassero il mondo determinando e denominando i paesi che andavano conquistando. Io mi ricordo che una volta ebbi una lunga conversazione con un latinista emerito, il quale si dilettava naturalmente anche di storia romana, ed egli mi disse: “Ma non trovi straordinario che quando i Romani arrivarono, per modo di dire, a Vetralla, contemporaneamente arrivavano ad Anzio. Quando arrivarono, secoli dopo, in Spagna contemporaneamente occupavano la Dalmazia. Quando scesero giù nell’Africa pingitana contemporaneamente occupavano l’Asia Minore”. C’è questa crescita naturale che indica una capacità di intuire lo spazio. Perché insomma coloro che decidevano tutte queste belle cose, fino ed escluso il tempo delle guerre civili ulteriori, erano dei gruppi di robusti contadini con i calli alle mani ed ai piedi, della gente robusta, dura che sapeva molto bene zappare la terra e farla zappare ai proprio schiavi, mangiava delle cose che facevano ridere i Greci, che era della gente piuttosto rozza, semplice e primitiva la quale però aveva il senso della propria presenza, della propria potenza, ed aveva il senso della Terra. Cioè vi è sempre stato per il romano un rapporto fra quella che è la Terra, le potenze ctonie, e il mondo celeste. Vi è sempre stato questo rapporto. Per cui noi vediamo delle figure di uomini che non riusciamo assolutamente a comprendere come non morissero di disperazione come, non so, quando furono assediati in Armenia – al tempo di Coubuloni, di Cesenio Teto – furono assediati da Armeni che improvvisamente avevano cambiato opinione e parere e in più Persiani di ogni genere e colori, i Parti, questa gente non si sono assolutamente persi d’animo. Quante volte durante le campagne delle Gallie sono stati sul punto di perdere tutto. Giulio Cesare disse addirittura che se Vercingetorige non fosse uscito quel giorno, il giorno dopo i Romani si sarebbero dovuti ritirare. Ora, considerate che ogni uomo romano portava sulle sue spalle, oltre ai vectigalia e le cose per mangiare, quattro o cinque pali semplicemente per fare lo steccato la sera. Perché quando calava il sole i Romani ricostruivano fisicamente una fortezza. Ma questo non era tanto per pararsi da attacchi improvvisi, quanto per possedere il terreno e consacrarlo. Il piantare un palo, l’impiantamento, come si dice in latino, “pactio“, proprio pactio, come pactus, cos’era? Il rapporto che io ho con gli altri e con gli Dèi. Quindi la fides, poi con il mondo degli Dèi. Nel campo degli uomini quello che domina è lo ius, nel campo degli Dèi ciò che domina è il fas. Sono i due piani, il piano terrestre e il piano celeste. Ora, quello su cui realmente conviene riflettere è questo senso profondo di interiorizzazione dell’ambiente e allo stesso tempo di proiezione della propria interiorità sul luogo dove ci si trova.
Pax deorum
La Roma antica e la natura dell’essere romano non nasce dalla natura animale: è stato un atto di volontà. Un atto di volontà che è stato consacrato da due atti: un atto giuridico per cui gli uomini si son dati reciprocamente la fides e un atto sacrale che era la “pax deorum”. Pax in latino non significa la “pace” e tantomeno significa l’ipocrita anglosassone “peace“, invocato dai vari tiranni che vanno dall’India fino al cuore dell’Africa. La “Pax” significa un’altra cosa: lo “stare in rapporto con gli Dèi”, la pax deorum appunto. Io non è che qui vengo a fare – vedete che non sono rivestito della porpora, nulla del genere – un’apologia di un periodo che in quella forma era finito. Che fosse bene o fosse male in quella forma era finito. Io non sto neppure a strologare sul fatto che Romolo abbia fatto bene o male ad ammazzare suo fratello Remo. Però il fatto è avvenuto. E il fatto ha rappresentato una categoria fondamentale a cui i Romani hanno obbedito fino ad Alarico, fino al saccheggio di Roma. Cioè che nel pomerio nessun uomo potesse né costruire né metterci i piedi sopra. Il saltare sul fosso è un atto di dichiarazione di guerra. Non contro i Romani ma contro gli Dèi. Ora, è questo: conviene ricordare che se noi abbiamo un particolare destino di essere nati sul finire di questo secolo e vivere queste esperienze in questo particolare popolo, con questa particolare abitudine, dall’abitudine del vestirsi e del mangiare fino a quelle più spirituali, questo non è un caso. È veramente una “electio deorum“. Sono gli Dèi che ci hanno spinto a nascere in questo momento in questa cultura e in questo popolo. E dobbiamo, in un certo modo, restituire a Loro la grazia che Essi ci hanno dato. È necessario far rinascere la nostra razza, perché la nostra razza è stata sovente confusa con una razza animale. Noi non siamo degli animali. E anche se avessimo il volto di pellirossa o di persiani o di polinesiani, noi siamo Romani perché abbiamo prima di nascere eletto di essere Romani. Altrimenti non saremmo nati Romani. E non parlo di Roma come “città”, ma dico Roma come “realtà spirituale”. Ora riconoscere questo implica tre ordini di doveri.
Doveri del romano
Costantemente mantenersi presenti dentro la propria pelle. Esercitarsi. Avere una condotta particolare, disprezzare il facile comodo, disprezzare l’inutile lusso, essere uomini raffinati, ma essere uomini fermi. Mantenere la fedeltà della parola. E nel fisico esercitarci a combattere. Cioè fondate, fatevi una cultura solida che non sia una cultura puramente, così, trasmessa, una cultura solida. Una cultura che vi permette di essere dei capi. Se ci sono dieci uomini e uno di voi sta in mezzo, egli è il capo. E allo stesso tempo forgiatevi il vostro corpo. Pensate a magnis itineribus, i militi romani che raggiunsero in dodici giorni il lago di Ginevra. Marciando. Ricordate che i Romani portavano sessanta chili sulla schiena. Consideratevi un gruppo di ufficiali, di giovani ufficiali, perché voi siete questo. Questo è quello che può far rinascere un germe in questa Nazione. Questa nazione è quello che è: un coacervo di debolezze e di forze. Quando si mettono tre pali assieme che sono forze, allora si può costruire un Colosseo. Quello che è importante è far nascere Roma entro l’Italia. Ora, spesso la nascita e lo sviluppo di Roma entro l’Italia significò la distruzione dell’Italia. Ma vale la pena di distruggerla se costruiamo qualcosa che regga i secoli?
Blocco Studentesco
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