di Enrico

Quante volte ci siamo chiesti fin dove arriva la nostra responsabilità? Fino a che punto abbiamo padronanza delle nostre azioni? Fino a dove siamo artefici del nostro destino e delle nostre azioni?

Questo è un tema che da sempre ci si è posti e che attraversa bene o male tutta la storia del pensiero occidentale. Basti pensare al dibattito Cinquecentesco tra Martin Lutero ed Erasmo da Rotterdam sul libero arbitrio, dove al De Libero Arbitrio di Erasmo, Lutero rispose con il trattato De Servo Arbitrio.

Il dottor Lutero, che oltre che fondatore del protestantesimo era anche un fine sofista, pose la questione in modo molto netto aggrappandosi ad ogni piccola parola per far quadrare il proprio ragionamento, sostenendo infine la totale inesistenza del libero arbitrio.

È interessante notare però come idee simili circolassero ben prima che Lutero rispondesse ad Erasmo. In questa analisi, infatti, prenderemo in considerazione principalmente due testi: uno è l’Encomio di Elena del sofista greco Gorgia e l’altro è il romanzo Cujo di Stephen King.

Partiamo dal primo. Nell’Encomio di Elena, Gorgia fa una cosa che per un greco antico, cresciuto con le storie dell’Iliade come fiabe della buonanotte, sarebbe stato impensabile: prende le difese di Elena di Sparta che, secondo l’epica omerica, con il suo tradimento causò la Guerra di Troia.

Egli sostiene infatti, in questa orazione difensiva immaginaria, l’innocenza di Elena, portando come prova il fatto che essa al momento della “fuga d’amore” con Paride non fosse pienamente cosciente delle proprie azioni. Gorgia sostiene la sua tesi appellandosi a tre fattori principali:

  • la persuasione e il rapimento con la forza da parte di Paride
  • l’impossibilità per una mortale di opporsi alla tyche, il fato (voluto dagli dèi)
  • l’accecamento della regina di Sparta da parte dell’Eros (che è anch’esso un dio)

Naturalmente sull’opera di Gorgia bisogna “farci la tara”: è pur sempre un testo di più di duemila anni fa e soprattutto l’autore è un sofista. I sofisti erano coloro che, dietro profumato pagamento, insegnavano le arti intellettuali e soprattutto l’arte oratoria (la retorica, come la chiamavano gli antichi). Platone stesso, infatti, li condannò senza pietà definendoli “prostitute della conoscenza”. Si tratta dunque di una persona che s’intendeva molto del parlar bene e di far passare il falso per vero attraverso bellissimi discorsi.

Ma indipendentemente da ciò, non si può fare a meno di notare che tutte le argomentazioni del sofista si riducano ad un punto fondamentale: non è colpa di Elena, non ha scelto lei di fare ciò che ha fatto, lei è una vittima (del fato, dell’amore ecc.).

Insomma, sembra quasi che Gorgia abbia introdotto il concetto di servo arbitrio più di un millennio prima della Riforma protestante.

Molto tempo dopo, ritroviamo questo concetto, in un’accezione leggermente diversa, nell’altra opera che abbiamo citato all’inizio di questa riflessione: il romanzo Cujo (1981) di Stephen King.

Onde evitare di rovinare la suspence a chi lo vorrà leggere, limitiamoci ad accennare ad alcuni punti focali della trama. È la storia di Cujo, un docile e giocherellone cane San Bernardo che, dopo aver contratto la rabbia a seguito del morso di un pipistrello, inizia lentamente a trasformarsi in una belva spietata che vede chiunque gli stia intorno come un nemico da abbattere. Arriverà persino ad uccidere il suo padrone e il vicino di casa di quest’ultimo e ad assediare una madre con suo figlio nella loro auto in panne, causando la morte per asfissia e disidratazione del piccolo.

Tuttavia, nell’epilogo del libro, King prende le difese del cane. Di nuovo, come nell’Encomio di Elena, la tesi è: non era colpa sua, Cujo era malato, non era consapevole di tutto il male fatto.

Qui però, questo tipo di idee hanno un’accezione leggermente diversa, rispetto all’orazione di Gorgia. L’idea delle avversità del fato, contro le quali non si può far nulla, qui è presentata con un tono di amara rassegnazione. Non è solo un “gioco intellettuale e retorico”, totalmente immaginario, come nell’Encomio di Elena. È una dura constatazione della realtà.

Va infatti ricordato che Stephen King ha scritto questo romanzo in un momento molto duro della sua vita: aveva infatti da poco perso la madre (a cui era molto affezionato) e ha scritto Cujo praticamente di getto, in perenne stato d’ebbrezza e sotto l’effetto di droghe e farmaci di vario tipo.

Sapendo questo si capisce il perché di tanto senso di abbandono e di impotenza di fronte al fato, ma anche la rabbia e l’odio verso tutti che deriva dall’impotenza verso il fato. E queste cose King in quel momento le stava provando tutte.

Da questa riflessione possiamo trarre tre opzioni su come affrontare quegli eventi avversi che ci sembrano inscalfibili. Possiamo accettarlo tranquillamente come parte del disegno divino, come nel caso di Elena. Possiamo accettarlo con desolata rassegnazione, come nel caso di Cujo. Oppure possiamo scegliere, nei limiti delle nostre possibilità umane, di prendere parte per noi stessi e lanciarci oltre quella morte di Dio, per usare una terminologia nietzschiana, che sono le avversità alle quali ci troviamo di fronte.

Di fronte alle varie morti di Dio, abbiamo sempre la scelta: restare nella disperazione o andare avanti.