Di Sergio
Siamo tutti un po’ stanchi dei film horror sui generis: sempre lo stesso mix d’ingredienti ma poca sostanza veramente terribile. Fortunatamente la LuckyRed, casa di distribuzione cinematografica, ci ha consegnato in versione restaurata il primo film di Alien, primo “mitico” capitolo della saga cinematografica inaugurata da Ridley Scott e che ha dato forma agli incubi di intere generazioni. Il fascino che certi film riescono ancora ad avere è inspiegabile se lo vediamo con occhi disincantanti ed abituati ai film più moderni. Il terrore che certi frame potevano evocare nel 1979 è di gran lunga calato, ma l’interesse e il fascino per l’oggetto – o sarebbe meglio dire la bestia – del film non è mai scemato, perché ci parla con una lingua che viene da un altro mondo.
Certi film “bucano” – letteralmente – il recinto del genere: come Blade Runner (sempre di Scott) la fantascienza si mescola ad un’epica dai contorni eroici per formare la sostanza di cui sono fatti gli incubi del futuro. Non ci parlano solo delle angosce del progresso tecnologico, ma ci invitano a viverlo eroicamente come il tenente Ellen Ripley, o il replicante Roy Batty. La coppia di primi uomini nel cui segno potrebbe nascere il nuovo popolo dell’alleanza tra volontà e tecnica: un Adamo ed Eva 2.0, o magari Askr ed Embla (per una cosmogonia a noi più congeniale). Come ogni grande film che si rispetti, la storia di Ripley è la storia dello scontro primitivo, che tolto dalle caverne dei primi uomini si proietta negli oscuri recessi dello spazio siderale: lo scontro con una razza aliena nella sua accezione più totalizzante, quella che dal latino alienus significa “estraneo” ed “avverso”, un totalmente altro biologico fuoriuscito da un relitto, tanto misterioso quanto il mostro che ne è scaturito fuori e che troverà spiegazioni nei due prequel usciti negli ultimi anni.
L’alieno – lo xenomorfo – è un essere ineluttabile nella sua furia distruttrice, immorale nelle sue azioni e che risponde esclusivamente al suo imperativo biologico primario: uccidere. La sua riproduzione è affidata ai facehugger, che infettano gli ospiti di qualsiasi razza rilasciando l’embrione all’interno del plesso solare, dalla quale ne uscirà un nuovo esemplare. Tutto il film, e i film che seguiranno, si svolgono e si dipanano nel confronto/scontro con questo essere ma soprattutto sui diversi approcci che gli uomini (e androidi) nutrono nei suoi confronti: da una parte la così detta “Compagnia” (Weyland-Yutani), il prototipo della classica multinazionale senza scrupoli che nutre ambizioni di onnipotenza economica, commerciale e scientifica, che tenta ripetutamente e con cognizione di causa di portare nei suoi laboratori l’alieno sacrificando tutto il sacrificabile in termini di risorse e vite umane; dall’altre parte gli uomini dell’equipaggio (della “Nostromo” nel primo film, della “Sulaco” nel secondo, un gruppo di ergastolani di una colonia penitenziaria nel terzo, dell’”Auriga” nel quarto) che tentano di rispondere al loro imperativo di sopravvivenza di fronte ad una minaccia senza tregua, sonno o riposo. A guidarli Ripley, una donna che nel tempo legherà tutta la sua esistenza alla lotta contro lo xenomorfo e i “mandanti” della Compagnia.
Narrazione a parte, le letture del film si prestano a diverse prospettive ed angolature da cui possiamo estrarre delle riflessioni utili alle sfide dei nostri tempi: in primis, c’è un orrore cosmico e senza nome che abita gli interstizi della realtà (nella migliore tradizione Lovecraftiana) e che abita in ogni cuore. Come scrive Ernst Jünger, “la società non si divide in uomini terribili e in uomini buoni: il terrore dimora in ogni cuore, anche se ne occupa solo un angolo. Può sempre uscire allo scoperto”. Un insegnamento che ci aiuta a superare le categorie di giudizio di buono e cattivo e ci aiuta a capire che il terribile fa parte della realtà, anche e soprattutto quando è senza spiegazione, causa o ragione. Un fulmine non è cattivo quando cade giù dal cielo, l’acqua può donare vita o inondare, il sole dare vita oppure bruciare, non per questo possiamo dire “in assoluto” che questi elementi siano per forza buoni o per forza cattivi, semplicemente non serve il giudizio perché ogni tentativo di descriverlo risulterebbe inutile ed inefficace. Lo xenomorfo è cattivo come lo è un’aquila che ghermisce la sua preda, ma come ci insegna Nietzsche la morale ha standard estetici: “se uccidi uno scarafaggio allora sei un eroe, e se uccidi una farfalla sei cattivo”. Lo xenomorfo uccide ogni cosa senza fare distinzioni – è un mostro di egualitarismo: non fa distinzioni di razza, sesso e nemmeno di classe. Un curioso aneddoto: nel film si abbozza una “questione sociale”, perché almeno nella prima parte si capisce che c’è un divario salariale tra i piloti della Nostromo e i macchinisti adibiti alla manutenzione, che lamentano e reclamano quantomeno un aumento. Per fortuna arriva l’alieno ad eliminare i divari di classe… Battute a parte, lo xenomorfo è cattivo solo nella misura in cui la sua natura lo rende un nemico da abbattere ad ogni costo, pena l’annichilimento totale della razza umana. È un nemico, senza sé e senza ma: non ci si può trattare, discutere, patteggiare, non si può raggiungere un compromesso o un confine tra il suo mondo e il nostro, non si può addomesticare. Una volta scatenato le uniche due soluzioni sono paura e rassegnazione o coraggio e lotta senza quartiere con tutti i mezzi a disposizione. Paura e rassegnazione, ovviamente, sono anticamere della morte.
In secundis, può esserci un eroismo volontario perfino sulle navi spaziali governate da una intelligenza artificiale chiamata Mather (Mamma) che tiene i suoi “figli” in criosonno, nell’attesa del risveglio, metafora perfetta di una società controllata e sorvegliata. Al contrario dello xenomorfo Mather ed Ash (l’androide) sono maschere di una volontà esterna il cui imperativo è fuori da loro stessi: gli vengono impartite “direttive” senza che essi possano avanzare o recedere nelle loro intenzioni. Dei gregari perfetti (o schiavi) nella loro fedeltà agli ordini ricevuti e nel modo di perseguirli senza scrupoli. In Alien non c’è una redenzione per gli androidi – non c’è l’insurrezione di Roy Batty come in Blade Runner – ma sono quello che sono senza porsi domande filosofiche ed esistenziali, senza darsi un tono epico o poetico: azione pura e semplice, controllata, senza passioni. Un tipo di azione che infatti sanno riconoscere nello xenomorfo, per il quale al pari della compagnia, nutrono una morbosa ammirazione o forse una segreta attrazione perché riconoscono in lui un istinto vitale a loro precluso. Indicativo in questo senso l’elogio che Ash, dopo essere stato sfigurato dal suo stesso equipaggio, fa dell’alieno: “Ammiro la sua purezza. Un superstite… non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità”. Ecco allora che tra il perfetto raziocinio di Mather e di Ash e il perfetto istinto dello xenomorfo, subentra l’imperfetto per eccellenza: l’uomo, con la sua proverbiale irrazionalità, la ricerca del suo posto nel cosmo, le sue paure con cui riempie gli spazi e gli involucri che esso stesso crea.
C’è una via possibile tra l’ordine di Mather e il caos dell’Alien? È la stessa domanda che ci poniamo noi di fronte alle sfide di oggi, imbrigliati come siamo in una società iper-controllata, sicura e raziocinante che però nel suo grembo nutre i “mostri della ragione”, verso i quali ha una morbosa attrazione, ma per i quali rassegnazione e fatalismo sono le reazioni più gettonate, perché in fondo a governare le scelte c’è sempre la paura. Gli uomini perdono contro l’Alien fin quando la paura li governa: il mostro penetra nella Nostromo perché l’equipaggio ha paura di perdere la gratifica se non dovesse rispondere al segnale di S.o.s proveniente da LV-426 (ricatto); perché il Capitano Dallas ha paura di prendere una decisione giusta ma moralmente inaccettabile ovvero quella di lasciare fuori Kane una volta infettato (ingiustizia); perché hanno paura di un animale scatenato ma pur sempre tale (ignoranza). Oltre la paura vince il fuoco, quello di Ripley, che intuisce la natura dell’alieno e anche quella dell’androide e si dà da fare per abbatterlo con i rudimentali mezzi a disposizione fino alla fine senza mai rassegnarsi all’ineluttabilità della natura e della tecnica che si frappongono tra lei e la vita. Il film non ci insegna nulla, piuttosto risveglia in noi la sensazione di qualcosa che abbiamo sempre conosciuto, un’in-coscienza se vogliamo. Spesso nelle saghe, nelle favole della nostra tradizione millenaria è proprio il ragazzino incosciente o ingenuo a salvare la situazione, ad intuire la minaccia quando nessuno la vede, a varcare la soglia che nessuno riesce a superare. Ripley è incosciente e se ne frega: di Ash e Mather, dell’alieno e della Compagnia, e sopravvive perché torna ad imbracciare il fuoco contro i nemici che si muovono nel buio. Non è vittima della paura, ma decide di abitarla, così come indossa la tuta spaziale nelle ultime scene del film, quasi completamente nuda come a rappresentare la messa a nudo della sua coscienza. Una vera e propria regressione (o evoluzione?) verso un tipo di uomo a sé stante che trae origine e giustificazione nel suo genio e non nelle strutture “paurose” che gli si parano davanti. Un uomo che accetta l’accidente in un mondo di accidenti e capisce che il mondo non ha un senso generale, se non il significato che noi gli diamo in un certo momento nello sviluppo delle nostre passioni ed azioni. Strutture che come ci dicevamo prima non sono né buone né cattive: esistono – come esiste il fulmine – e vanno affrontate col piglio di chi vuole fortemente voler vivere.
Commenti recenti