Di Michele
In questo articolo proveremo a spaziare e mettere in relazione mondi lontanissimi fra loro. Il punto di partenza è un dibattito andato in scena qualche settimana fa fra l’editore Francesco Giubilei e l’economista Michele Boldrin sul canale Youtube di Ivan Grieco. L’argomento è stato il fascismo, ma possiamo dire fin da subito che è stata un’occasione persa.
Il casus belli è stato un tweet dello stesso Giubilei per celebrare la nascita di Gabriele d’Annunzio, a cui Boldrin rispose con una buona dose di cattiveria: “Son fascisti, finalmente hanno la decenza di ammetterlo. Che poi si masturbino (mentalmente parlando, sia chiaro!) sognando il vater di Fiume e le sue orrende stronzate, ci sta con il livello intellettuale”. Commento a cui a sua volta Giubilei replicò piccato: “Peccato, la reputavo una persona intelligente ma da questo post denota solo una grande ignoranza della storia che per un professore universitario, anche se di un’altra disciplina, è una cosa grave”.
Anche il confronto sul canale di Ivan Grieco non si sposta più di tanto da questi binari. Boldrin ha gioco facile a dimostrare le implicazioni di d’Annunzio con il fascismo, mentre Giubilei cerca in tutti i modi di salvarlo dalla accusa di fascismo così da poterlo recuperare al campo conservatore. Un atteggiamento che però finisce per depotenziare e smobilitare lo stesso d’Annunzio, rendendolo una sorta di vittima dei fraintendimenti e delle usurpazioni del fascismo. Ci troviamo di fronte a quello che Giorgio Locchi definirebbe un “occultamento” del fenomeno fascista.
Citiamo direttamente quanto scrive a proposito il pensatore romano ne L’essenza del fascismo (recentemente ripubblicato in una nuova edizione a cura di Adriano Scianca per i tipi di Altaforte: “Nel dopoguerra è quasi assenta una valida «riflessione storica» fascista sul fenomeno fascista: per forza di cose, cioè per la ragione assai semplice a cui si è già accennato nella «illegalità» o quanto meno nella conclamata intolleranza socio-politica verso qualsiasi manifestazione di natura autenticamente fascista. Poiché peraltro la «definizione legale» del fascismo soltanto coglie – e male – la «forma» particolare e congiunturale che s’incarnò, tra il 1922 e il 1945, nei «regimi» al potere ed ignora tutte le altre forme (che ebbero esistenza alla stessa epoca ma non furono compromesse dall’esercizio del potere), così come necessariamente ignora tutto il vasto campo culturale, filosofico, artistico che costituisce la matrice del fenomeno fascista, s’è creato un certo margine di libertà per quegli autori che, magari soltanto per esigenze «tattiche», si rifanno politicamente alle forme non incriminate (perché ignorate) del fascismo”.
In altre parole, per fuggire lo stigma del fascismo si cerca di ridurre quest’ultimo alle manifestazioni e alle esperienze più compromesse per poter salvare il resto, “ciascuno rivendicando per sé e il proprio campo un fascismo «buono», prudentemente ribattezzato con altro nome, e rigettando sugli altri la responsabilità di un «male», all’occorrenza identificato in tutto o in parte con quelle «forme» del fascismo che avevano detenuto il potere ed attirato l’universale condanna dei vincitori”. Una tattica che, però, produce più di una falla. Innanzitutto, si accetta senza colpo ferire una demonizzazione del fascismo come male assoluto, riconoscendo di fatto l’antifascismo come bene assoluto. Cosa che dovrebbe interessare anche chi fascista non lo è, perché da qui procedono tutta la serie di demonizzazione della destra in genere e la superiorità morale che la sinistra arroga a se stessa. Secondariamente, questo atteggiamento funziona sfruttando l’ignoranza dell’avversario. Perciò si assiste a uno continuo tira e molla tra riferimenti accettabili e non, con i gendarmi dell’antifascismo che inseguono di volta in volta i nuovi rimandi e le nuove fascinazioni che l’altro campo trae dall’oblio. Infine, riducendo il fascismo in modo così parziale se ne perde il senso e l’originalità.
La debolezza delle argomentazioni di Giubilei non la vediamo solamente in astratto, ma anche nel pratico quando Boldrin arriva a paragonare Il manifesto della razza del 1938 con le attuali politiche migratorie di Fratelli d’Italia. Qui Giubilei fugge addirittura il discorso, senza riuscire a controbattere, e bollando come inaccettabile il solo parlarne. Per quanto sia lapalissiano che il paragone non sta in piedi – non solo nelle sue implicazioni concrete, ma anche in quelle intellettuali (il colonialismo è un fenomeno attivo, l’immigrazione di massa viene invece subita dall’Italia; il razzismo non è un fenomeno esclusivo del fascismo ecc.) – è sintomatico di come, una volta accettati i presupposti culturali della sinistra (compreso l’antifascismo), si finisce per accettarne le implicazioni politiche di fondo. Così Giubilei sull’immigrazione si mostra ancora più realista del re, mostrando come dei fenomeni migratori si possa avere solo una risposta emotiva e moralizzante.
Paradossalmente, è Boldrin a fornire una lettura del fascismo più positiva. Quest’ultimo lo pone correttamente all’interno della tradizione risorgimentale, cosa peraltro rivendicata dal filosofo Giovanni Gentile nel Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925. Tuttavia estende il fascismo a una sorta di carattere eterno degli italiani, che diventa più che altro la somma dei difetti e delle tare nazionali. Per Boldrin la forma mentis del fascismo – e quindi di una certa Italia – è quella di un provincialismo e di una arretratezza culturale che vanno di pari passo a manie di imperialismo, le quali vengono regolarmente frustrate essendo poste non nei fatti ma nell’eredità storica come può essere quella dell’Impero Romano. Ciò provocherebbe a suo volta il mito di una congiura che ritrova ad esempio nella vittoria mutilata dannunziana.
Una lettura che però tiene fuori molto di quello che il fascismo fu, negando la sua parte modernizzatrice, mobilitante, futurista, che Ezra Pound riteneva essere “il primo movimento antisnob verificatosi in questa penisola dai tempi di Catone il giovane”. Anche riguardo al mito imperiale il fascismo cercò di porlo come progetto e non come conservazione dell’esistente, con spinta in avanti e non come culto museale delle rovine. Così il “primato morale degli italiani” – per usare un’espressione di Gioberti, molto criticata da Boldrin – ha senso non come alibi rispetto al tempo presente, quanto piuttosto come pungolo a rinnovare quella grandezza. Come ebbe a scrivere Giovanni Papini: “La fulgidezza della civiltà italiana è opera, per la massima parte, degli avi e dei padri e possiamo menarne vanto solo a patto di accrescerla”. Quell’italietta macchiettistica, adagiata su sé stessa e incapace di lanciare la sua sfida, che descrive Boldrin è la stessa di “un’Italia pacifica, simpatica, con la Torre di Pisa un po’ storta, un’Italia morta con fabbriche in svendita e una gioventù in perdita, dedicata in tutto per tutto ai servizi e al servizio, che non ha nulla da perdere e tutto da vendere”, che ci fa rispondere con un sonoro “viva l’I-taglia che taglia come le baionette”.
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