di Michele
Se c’è un intellettuale buono per tutte le stagioni, quello è Pier Paolo Pasolini. Di tutti e di nessuno, il friulano è uno strano caso di irregolare comodo. Una somma di contraddizioni mai risolte lo rendono appetibile ai più, senza però confinarlo ad un solo campo. C’è chi dà per scontata l’appartenenza ad una sinistra ideale, al movimento studentesco del ’68 e alle manie di libertà sessuale. Il perfetto tipo dell’intellettuale impegnato con i suoi pippotti di critica sociale e lo sguardo chino sugli ultimi (di chi ultimo però non è). Al contrario c’è chi lo vorrebbe arruolare ad una sorta di destra sotterranea ed eterna, prendendo i suoi strali contro la società come espressione di un autentico pensiero antimoderno, sottolineando il suo “intimo, profondo, arcaico cattolicesimo”, e pendendo dalle sua labbra quando fa dire ne La ricotta ad un Orson Wells che recita quasi nella parte di un suo alter ego e che riprende dei versi di Mamma Roma: “Io sono una forza del passato. Solo nella Tradizione è il mio amore”.
Per paradosso, il Pasolini reazionario piace per lo stesso motivo per cui piace quello progressista. In fondo, a dominare è il suo provincialismo, è il senso di perdita di fronte a un mondo rurale e popolaresco fatto di piccole cose che non sta al passo con l’incedere della modernità. Questo vale sia quando si pensa a quest’ultima come una male del capitale che come una perversione dei tempi ultimi.
C’è poi il Pasolini scandaloso, che lo rende tanto più discusso e apparentemente isolato quanto apprezzato a posteriore. È lo scandalo dei suoi vezzi dissacratori e della sua sessualità vissuta quasi come una discesa nel torbido (non tanto e non solo per la sua omosessualità). Ma è anche lo scandalo di alcune sue prese di posizione, come quella famosa nella poesia Valle Giulia in cui prende le difese delle forze dell’ordine “perché i poliziotti sono figli di poveri” e rimprovera i manifestanti per essere nient’altro che “figli di papà”. Nonostante, sia detto per inciso, questo testimonia un’ambivalenza e un’inconcludenza molto diffuse nell’intellighenzia italiana riguardo alle inquietudini di rivoluzione, possiamo citare come esempio Storia di un impiegato di De Andrè (“Per quello che hai fatto/Per come lo hai rinnovato/Il potere ti è grato”, così la giura si esprime nei confronti del Bombarolo in Sogno numero due).
Quella dello scandalo è anzi una dimensione che ricerca consapevolmente: “Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere. Chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, è il cosiddetto moralista”. E se si parla di scandalo non può che venire in mente l’ultimo film di Pasolini: Salò o le 120 giornate di Sodoma.
La pellicola ebbe una vicenda travagliata, con tanto di furto delle bobine durante la lavorazione, accuse di oscenità, e sopratutto la morte dello stesso Pasolini poco prima della pubblicazione. Tratto dal romanzo incompiuto del marchese De Sade intitolato Le 120 giornate di Sodoma, il film è probabilmente noto alla maggior parte del pubblico come una specie di film maledetto, difficile da guardare e digerire, una prova di coraggio per i più suscettibili, meno per il suo contenuto. La premessa: quattro figure grossomodo rappresentano il potere politico, quello religioso, quello giudiziario si mettono d’accordo per poter dare sfogo ai propri vizi e alle proprie depravazioni, rapiscono un numero sufficiente di giovani e giovinette, si riuniscono in un luogo nascosto, e, ispirati dai racconti scabrosi di quattro narratrici, danno fondo alle proprie perversioni seviziando le proprie vittime.
In Sade prevale una struttura rigorosa, geometrica, quasi ridondante, dove la cornice del romanzo si alterna ai numerosi racconti della narratrici, prima con una prosa ricca e sovrabbondante poi con una elencazione quasi meccanica nelle parti ancora non finite dallo scrittore. Pasolini invece si affida ad una divisione dantesca in Antinferno, Girone delle manie, Girone della merda, e infine Girone del sangue. Ma il cambiamento più significativo è l’ambientazione, per Sade è un castello nella Foresta ai tempi di Luigi XIV, mentre per Pasolini è la Repubblica Sociale sul finire della Seconda Guerra Mondiale. Ciò dà al film un particolare sottotesto politico apertamente antifascista. Qui sta tutta l’incomprensione di Pasolini nei confronti di Sade, del fascismo, e della violenza.
Avendo ben presente l’opera di Sade, quella di Pasolini sembra il lavoro di un’educanda. Tuttavia, in questa discesa verso l’abisso c’è molto di più che una differenza di gradi. Non c’è nulla del tono intellettualistico di Pasolini. C’è anzi una marcata ironia per il sovvertimento della virtù con il vizio, con quest’ultimo che altro non è che un impulso naturale. Con un certo pessimismo il fine della natura è la morte, la distruzione, l’uomo deve dunque assecondarlo con il crimine, l’assassinio, la sopraffazione del debole da parte del forte: “Dovete capire, meschina creatura, che ci siamo divertiti con la vostra persona, per la semplice e naturale ragione che induce la forza ad abusare della debolezza”. Sade insite sulla razionalità di questa logica della dissipazione e del dominio: “Affrettiamo a indossare il manto della filosofia: sarà presto quello di tutti i vizi”.
Nell’esagerazione e nella ripetizione degli orrori c’è qualcosa di comico, come di chi voglia spararla sempre più grossa, che fa bene il paio con il Sade persona, il quale, a lungo imprigionato prima a Vincennes e poi alla Bastiglia per un’inezia, fa invece la figura dello sciocco, del frignone, di quello che è stato fregato. Tornando al nucleo concettuale sadiano, ci accorgiamo che in un lui c’è l’esasperazione di alcuni temi illuministici. I personaggi di Sade mostrano fin dove possa spingersi il singolo lasciato solo a sé stesso e liberato da ogni dogma. Senza altre leve se non la propria ragione e il proprio egoismo, trovano nel godimento l’unico obbiettivo sensato, ma questo si rovescia nel vizio e nella sopraffazione. Fuori dall’individuo non c’è nulla, l’altro è solo un mezzo.
Pasolini riduce tutto questo ad una critica del potere. Il suo Salò ne descrive l’orrore, la sua ambivalenza per la facilità con cui lo subiamo ma vi partecipiamo, e infine la sua punizione. Tutto questo in un movimento ciclico e apparentemente assurdo. È la riproposizione in chiave decadente della dialettica hegeliana servo/padrone. In questa sorta di incontro a-storico di cui il filosofo tedesco parla nella Fenomenologia dello spirito, abbiamo due uomini che danno vita ad un lotta mortale, uno dei due cede e per paura della morte si lascia schiavizzare. Quest’ultimo, costretto al lavoro dal padrone, ha però un rapporto più autentico con il mondo appunto in quanto agisce su di esso tramite il lavoro. Questa maggiore autocoscienza è ciò che rovescia i rapporti di forza e libera il servo.
L’inconfessabile qui è che in quest’ottica qualsiasi rapporto tra uomo e uomo finisce per trasformarsi in un rapporto di potere, quindi di dominazione. Una relazione soggetto/soggetto è impossibile, ma si dà sempre come soggetto/oggetto, ma l’altro, proprio in quanto oggetto che non si dà totalmente al soggetto e rimane opaco, è ciò che oggettifica l’io. Sotto questo punto di vista il film di Pasolini è la realizzazione del sartriano: “L’inferno sono gli altri”. Ciò spiega anche la sua rappresentazione del potere, lontanissima dalla concezione del potere nel fascismo, me che diventa una proiezione dello stesso Pasolini tanto da riuscire a vedere in esso quasi una forma di liberazione e del quale nutre una segreta fascinazione: “Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole”. Come giustamente nota Adriano Scianca in Riprendersi tutto: “Il fascista sadico, caprofago e oligarchico dei film di Pasolini non riflette altro che i fantasmi interiori e le segrete ossessioni di chi quelle pellicole le ha realizzate e applaudite”.
Ciò che manca in questa dialettica con l’altro di Pasolini, come in gran parte degli intellettuali della sua epoca, è la dimensione della conflittualità. Non c’è il riconoscimento dell’avversario nella sua reciprocità, la dialettica servo/padrone esclude qualsiasi parità tra i due contendenti. Troviamo così la negazione della lotta. La paura della morte rende possibile solamente un rapporto di dominazione e di sfruttamento, che si istituisce come un rapporto fondamentalmente asimmetrico. Non c’è traccia di quella agonalità, di quello spirito cavalleresco, di quella inclinazione guerriera che permettono lo scontro e il riconoscimento reciproco. La distanza e l’incomprensione con il fascismo, il quale proprio su questa dimensione conflittuale basa sé stesso, non potrebbe essere maggiore. Possiamo qui citare a titolo di esempio il Filippo Tommaso Marinetti di Necessità e bellezza della violenza che ce ne offre una perfetta descrizione: “È soltanto con la violenza che si può ricondurre l’idea di giustizia, non a quella fatale, che consiste nel diritto del più forte, ma quella sana e igienica che consiste nel diritto al più coraggioso e del più disinteressato, cioè all’eroismo”.
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