Di Bianca
È di circa una settimana fa la notizia dell’assoluzione di Giuseppe Castaldo, il gioielliere napoletano che il 7 ottobre 2015 a Ercolano sparò a due ladri fuori dal suo negozio, dopo che i due lo avevano raggiunto in motorino. Castaldo al tempo aveva 68 anni e aveva appena prelevato cinquemila euro. Dopo sette anni di processo, la sentenza arriva dal Tribunale di Napoli, che dichiara che “il fatto non costituisce reato”.
Una notizia che aveva fatto non poco scalpore, specie con l’intervento di Matteo Salvini che commentando la vicenda aveva scritto sui suoi profili social “Io sto con il gioielliere”. Un caso che alla fine ha avuto un esito ben diverso, però, da un altro ancora, avvenuto nemmeno a un anno di distanza.
Al centro delle accuse c’è Mario Diana, il meccanico campano che il 22 marzo del 2016 sparò a uno dei due ladri che si erano introdotti nella sua abitazione mentre quest’ultimo stava cercando di scappare con la macchina rubata. Diana è stato condannato a 9 anni per omicidio (prima imputato per eccesso di legittima difesa) dalla Corte d’Appello, con la sentenza della Cassazione che riconosceva la difesa come legittima solo quando si scongiurava un pericolo imminente, e non per recuperare la refurtiva. In altre parole, per la Cassazione ci si poteva difendere solo se aggrediti fisicamente, ma non per recuperare le proprie proprietà diventate oggetto di furto nel proprio domicilio.
Nulla da aggiungere per sottolineare quanto una simile valutazione sia assurda. Ma l’aspetto ancora più assurdo è come persino il diritto di legittima difesa sia diventato una delle numerose pratiche proibite dalle anime buone della sinistra; come l’esercizio di un diritto così elementare sia stato paragonato a qualche sadico tentativo di rifondare il Far West.
Ma quando si parla di legittima difesa?
In questo contesto non è ovviamente possibile rispondere a questa domanda da un perfetto piano legislativo, mancando le competenze, lo spazio e quello che è il punto centrale dell’articolo. Si cercherà semplicemente di rendere in modo esaustivo il concetto di legittima difesa, in caso di intrusione forzata sia nel domicilio del proprietario, sia nel luogo dove il proprietario esercita la sua attività e la sua professione.
Perché la difesa sia legittima, deve rispettare quattro diverse condizioni principali riportate nell’articolo 52 del Codice Penale.
• L'”ingiustizia” dell’offesa
L’offesa prevede essenzialmente un’aggressione contro un diritto altrui, che sia individuale, personale o patrimoniale; è il compimento di un’azione illegittima, quindi fuori dai casi previsti dalla legge. Già in questo punto si accenna alla proporzionalità della difesa, che va a confermare la necessità della difesa contro l’offesa.
• L’attualità della difesa
Secondo questa condizione, l’offesa non deve essere stata compiuta lasciando spazio a una possibilità di una difesa, altrimenti quest’ultima va a essere classificata come una ritorsione o una vendetta, che non sono legittime. Quindi il solo portare delle armi, senza che vi siano minacce di farne uso o senza dimostrazioni dell’intento di usarne immediatamente, non va a creare una situazione incombente di pericolo, e l’attualità della difesa non viene riconosciuta.
• La necessità della difesa
La difesa è legittima quando la sua azione di fronte all’offesa nasce per difendere un diritto, e la difesa non può che prevedere un esito violento affinché possa proteggere tali diritti. Questo indifferentemente dal fatto che l’aggressore sia in grado di intendere e di volere o meno. L’azione dell’offesa può essere interrotta solo dalla reazione della difesa.
• La proporzionalità della difesa all’offesa
Quest’ultima condizione, come già accennato, è di fondamentale importanza fra pericolo incombente e reazione. Vi sono dei diritti però che godono di particolare rilevanza rispetto ad altri, perché legati inevitabilmente all’essere una persona umana: quello della libertà di movimento e quello della libertà sessuale. Se tali diritti vengono minacciati, una reazione che porta più danni all’offesa che viceversa, può essere considerata legittima.
Questo ultimo punto in particolare risponde di criteri e valutazioni non astratti e preimpostati, ma di analisi dell’oggetto usato dalla difesa contro l’offesa, le circostanze particolari che hanno portato l’aggredito a ricorrere a tale sistema di difesa, ecc. In sostanza, si analizza caso per caso.
Dunque, perché la sinistra prova una tale avversione verso un diritto riconosciuto, legittimo, e strutturato su più punti nella legge? Sarebbe meglio chiedersi forse, perché la sinistra si indigna per certi atti di violenza, a seconda di chi li commette. Ma la risposta a quest’ultima domanda è già scontata.
Riconoscere la necessità della legittima difesa significa ammettere l’esistenza di un’offesa avanzata, che va a contrastare la tesi che sostiene quell’inarrestabile desiderio di integrarsi degli immigrati irregolari. A questo punto le buone intenzioni delle povere vittime non sono poi così limpide. La sinistra corre ai ripari ribadendo che sarebbe appunto la mancanza di tale integrazione che spinge dei poveri disgraziati a commettere atti violenti, perché togliendo loro la possibilità di condividere con noi la loro cultura, ai discriminati così privati di ogni altra possibilità di realizzazione non resta che la dolorosa decisione di ricorrere alla rapina e alla violenza. Colpa nostra dunque, e del razzismo.
Nel caso in cui invece a commettere il crimine è un italiano o un bianco, l’atto risale alla pura e proverbiale cattiveria insita nell’uomo occidentale; la stessa con cui, seguendo la “logica” sinistra, li discriminiamo spingendoli a seguire il nostro esempio. Quindi non solo vengono emarginati causa razzismo ma vengono pure imposti loro dei modelli sbagliati. Quindi sempre colpa nostra.
Dinamiche, queste, che già conosciamo, e che forse non varrebbe nemmeno la pena di riportare, se queste non si aggiungessero a un altro aspetto che tocca la questione della legittima difesa: la concezione sinistra degli spazi, soprattutto quelli privati.
Al di là di qualsiasi riferimento all’abolizione della proprietà privata predicata dal comunismo (viene naturale pensarci), ciò che lega proprietario e proprietà è un indubbio legame di appartenenza: parola con cui i rossi non hanno buoni rapporti.
Si potrebbe fare un parallelismo paradossale fra confini nazionali e confini della proprietà privata. L’esistenza di qualcosa che è mio, e di nessun altro; uno spazio delimitato non intercambiabile; uno spazio che risponde all’autorità di uno, su cui questa autorità fa valere il suo potere: tutto questo implica un limite, una differenza.
L’atto della rapina forza e viola uno spazio privato. La sinistra non condanna l’atto (almeno, non sempre), ma va a mettere in discussione l’esistenza dello spazio privato stesso, o meglio della necessità di difenderlo da parte del suo proprietario. I ruoli di vittima e carnefice si scambiano in una folle dialettica in cui è l’aggredito a vietare l’accesso all’aggressore perché diverso.
Quella volontà di difendere rimane sempre e comunque: è di natura identitaria e quindi inaccettabile. Quel qualcosa che non può, non deve essere ceduto all’altro, che essendo diverso non può avervi libero accesso, se non sotto determinate condizioni. Una dinamica che, per quanto sia semplice e scontata nel ripetersi tutti i giorni in ognuna delle nostre case, assume tutt’altra importanza quando si tratta dei nostri confini nazionali, via mare o via terra.
L’onda uniformante e senza volto della globalizzazione ha appiattito non solo culture e identità ma anche città, perché tutti vi possano appartenere e vi si possano riconoscere in ugual misura a tutti gli altri. Luoghi che rappresentano tutte le culture di tutto il mondo, indifferentemente, che sono di tutti e quindi di nessuno. Il futuro del mondo dell’uguale non è quello dell’abolizione della proprietà privata, chiaramente, andando a rispondere del capitalismo progressista di questi ultimi decenni. Ma alla creazione di spazi tutti uguali, indifferenziati, in cui tutti vivono la stessa vita, percepiscono lo stesso stipendio, mangiano le stesse cose, si vestono con gli stessi vestiti.
Un futuro che sembra descritto in una distopia pessimista, ma con avvisaglie tutt’altro che lontane dal nostro tempo. E non stupisce nemmeno pensare che, conoscendo il fervore dei nostri connazionali, ma anche dei popoli europei, è una prospettiva che non desterà troppe coscienze, ma che verrà accettata passivamente. Che sia “per il nostro bene” o per mera rassegnazione.
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