Di Sergio

Se questo mondo ha una colpa è quello di far credere che tutti possono fare tutto, perché in fondo basta crederci e alla fine, per magia, la mediocrità si trasformerà in oro. Tra i tanti mantra motivazionali e post retorici sul successo, la fama e i soldi troviamo costanti ed imbarazzanti riferimenti ai miti “retorici” – appunto – dell’arte. Miti facili, non impegnativi, digeribili dalla retorica della ricerca della felicità e del successo, spendibili in monoporzioni digitali.

Ovviamente non entriamo nel merito puramente artistico, non siamo critici (non vorremmo esserlo), ma in quello della propaganda politica che si propugna attraverso un certo tipo d’arte confezionata appositamente per consumatori. Van Gogh è uno degli esempi più eclatanti di questi miti retorici ripescati e rimescolati in tutte le salse possibili – tornato alla ribalta con un film che lo ha praticamente reso uno di noi – spremuti per vendere biglietti e staccare assegni in un grosso circo mediatico-culturale che si alimenta di mostre, kermesse, gallerie e ovviamente affari milionari. Nessun secolo è mai stato così saturo d’arte, o sarebbe meglio dire di “prodotti” artistici, come il nostro. Sintomo evidente di un’incapacità di potenza, il nostro sguardo è semplicemente rivolto al passato o al massimo alla perpetuazione medesima del presente in forme astratte e senza senso. Trabocchiamo d’immagini estratte dai grandi capolavori del passato, troviamo la Venere di Botticelli su borse e mutande, ovunque nuove mostre, nuovi musei, nuovi percorsi virtuali in cui si rimescolano sempre le stesse carte.

“Potremmo campare di rendita” è uno dei mantra-spot per avere sempre più musei, sempre più cultura, sempre più libri in cui bearci della nostra mediocrità. Viviamo una fase bulimica di produzioni editoriali, musicali ed artistiche senza capire bene il senso di nessuna di queste: il fatto che ci sia libertà di stampa vuol dire che tutti possono scrivere? Se tutti possono scrivere è per forza un prodotto migliore quello che uscirà fuori? Se tutti possono avere a portata di mano un quadro di Monet è perché l’artista è in noi? Lungi da fare dell’arte un discorso “classista”, vanno comunque evidenziati gli eccessi di un mondo che non conosce crisi: il mercato dell’arte. Che si autoalimenta con i dogmi morali delle società occidentalizzate: la bellezza come sfondo (desktop), la natura come vetrina (green), l’eccellenza come prodotto (vendesi).

Dovremmo chiederci: cos’è oggi l’arte? Leonardo Da Vinci, Seraut e de Chirico si consideravano “artisti” come una categoria astratta applicabile e replicabile in ogni tempo e luogo? Spieghiamoci: arte è un fine o un mezzo?

La domanda apre un mondo. Oggi è considerata un fine, lo scopo. Arte per arte. Arte senza altro scopo che quello di autoalimentarsi senza un fine – e quindi senza limiti.

 Arte per vendere e motivare. Arte per sentirsi intelligenti. L’arte moloch su cui piegare tutti gli istinti, le passioni, la bellezza. Ma una domanda sorge spontanea: i grandi artisti del passato (a cui noi abbiamo dato tale appellativo) sono stati grandi perché hanno avuto come scopo fare “arte” o perché la ricerca della felicità era il loro fine metafisico? Cosa può uscire da un mondo – il nostro – in cui tutti vogliono essere felici e che pensano di esserlo inseguendo i propri desideri bassi come i bisogni, i consumi, le marchette pubblicitarie? Fanculo la felicità: da simili dogmi non potrà mai più uscire un’intelligenza sana o “un’antenna della razza”. Il mito della felicità è il grande inganno degli “immortali principi” del ’89, che ha incatenato ogni sfera dell’agire umano ad una contingenza fine a sé stessa. Se Arte fu mai prodotta, o musica o grande pensiero umano in versi e in prosa, non fu fatto da uomini “felici”, né cattedrali né basiliche furono innalzate alla felicità e nemmeno la tecnica fu mai il prodotto di un secolo felice. La felicità è una condizione, è seguire la propria attitudine, non un eden in cui smettere di soffrire.

Ci sembrano quindi sempre muffe e stantie tutte quelle polemiche che nascono quando il feticcio artistico-culturale sembra essere sotto attacco: è il caso delle proteste ambientaliste che hanno “colpito” – in ordine cronologico – un quadro di Van Gogh a Londra e uno di Monet a Potsdam. Giudizi unanimi che oscillano tra lesa maestà al Dio Museo e giusta critica ad un movimento che cerca pubblicità attraverso gesti eclatanti (ma nemmeno troppo) per spostare un’attenzione che c’è già (a reti unificate) sui temi ambientali ed energetici. Eppure nessuno ci sembra abbia detto la cosa giusta: che grandissima rottura di palle! Quella degli ambientalisti, quella dei musei, quella dell’indignazione ad orologeria. Purè di patate? Sul serio per voi la Terra è così importante da usare un contorno come arma? Come minimo ci voleva una molotov.

Ma in fondo il purè è solo altra pubblicità che si regge su un sistema pubblicitario. La protesta degli ambientalisti non è stupida perché hanno ferito l’arte (quella col ditino alzato) ma perché non ferisce nessuno: Monet è morto da qualche anno e prendersela con gli oggetti è la cosa più facile che si possa fare, soprattutto quelli del passato, perché in fondo non si tange nessuno di vivo che possa offendersi. Quello che veramente dovrebbe preoccuparci è che questi oggetti vengono colpiti perché considerati i simboli più alti della nostra civiltà: è singolare che l’ira di oggi si rivolga contro oggetti ed opere di secoli fa, quasi a dire che la cosa migliore con cui prendersela non è di questo tempo. Il mondo dell’arte aveva già rotto le palle, perché si nutre di un intimo complesso d’inferiorità, ma adesso ancora di più che i figli di quel complesso si rivolgono contro di lei restituendoci l’immagine schizofrenica di una società senza scopo. Questo potrebbe essere un bel quadro da dipingere.