L’ora è tarda. La necessità impone un nuovo ritmo di marcia: quello della rivoluzione. Siamo giunti alla congiunzione di una nuova possibilità storica, dove regna caos e confusione da cui trarre le forze necessarie al cambio di rotta. La Déa romana della necessità, la greca Ananké, è considerata figlia del caos primigenio, ordinatrice del destino su cui regna sovrana, superiore persino agli Dei olimpici. Insieme a lei nasce crònos, il tempo – suo fratello. La cosmogonia del mondo indoeuropeo ci suggerisce che il nostro tempo inizia dove la forza della necessità impone un sentiero ordinato tra il dis-ordine: necessitas non è il bisogno effimero – il crampo allo stomaco – ma un’intelligenza superiore che ordina ed intreccia le file del destino da noi scelto. È un’energia, una potenza, uno stato d’aggregazione della materia per il quale le cose, gli oggetti, gli esseri, “non possono fare altrimenti”. Noi non possiamo fare altrimenti. Qui ed ora, mentre il mondo scivola verso l’informe, l’indistinto, l’incolore. Mentre scivola nella disintegrazione della società in tanti piccoli atomi slacciati dai propri legami, recisi e separati dal nuovo diktat della conservazione: razionamento e distanziamento, degli uomini e delle cose che compongono il suo ambiente, smobilitazione della società rispetto alle sue responsabilità sociali. Combattiamo una forza che separa invece di unire, che isola invece di comunicare, che cancella invece di ricordare, che allontana dal centro e spinge verso il vuoto. Invertire questa entropia è il ruolo che ci spetta, seppur consapevoli del destino tragico a cui andiamo incontro. Abbiamo tutto contro, perfino le leggi della fisica: non importa, dobbiamo raccogliere senza distinzioni e paraocchi, come pirati che fanno razzia di bottino, tutte quelle idee e forze che aggregano, uniscono e mobilitano oltre.
In febbraio, l’inizio di un nuovo conflitto armato sul suolo europeo ci ha dimostrato – ancora una volta – che il mondo unidimensionale è un foglio molto sottile ed è sempre pronto a lacerarsi dove il peso dei popoli e della volontà fa più pressione. La storia è una scelta e se c’è una cosa da imparare dal sangue che anche ora scorre copioso ad oriente del continente è che l’Italia e l’Europa sono ancora fuori dalla storia, fuori strada e fuori gioco, e si vendono alle potenze economico-militari estere. Soffriamo di miti d’importazione, della sindrome di Stoccolma – senza escludere l’area politica che pensa di rifarsi alla destra sociale o conservatrice. Miti che consumiamo e che quindi continuano a venderci. Abbiamo smesso di sperare che la salvezza arrivi dai nostri lidi, aspettiamo sempre che qualcuno venga a liberarci: che si chiami Joe Biden o Vladimir Putin, l’assorbimento delle proprie speranze di vittoria ad agenti esteri è il sintomo di una colonizzazione che non è fatta di basi militari ma di idee, pensieri e cultura. Liberiamoci quindi di ciò che non è propriamente originario della nostra civiltà, respiriamo l’aria buona delle Alpi e del Mediterraneo. Rigettiamo senza compromessi il mondo nato da Yalta e dal 8 settembre 1943. È giusto ribadirlo, ora che si ammicca perfino ai nemici dell’Europa e dell’Italia per le speranze revansciste ora anti-americane ora anti-russe, ora che la rincorsa democratica al 25 settembre ha spinto gli attori principali dell’opposizione a “giustificare” in mondovisione i propri retaggi ideologici, rassicurando che no – non ci sarà una vera e propria svolta. Solo un cambio. Noi non crediamo ai cambi di potere senza i cambi di prospettiva. Non crediamo al sistema democratico: rigurgiterà un nuovo governo tecnico, senza maggioranza e senza opposizione, per continuare a seguire le linee delle agende sovranazionali. È necessario quindi ristrutturare una prospettiva anti-democratica – votata al volontarismo, alla partecipazione, alla meritocrazia e alla gioventù.
Diventa rivoluzione, quindi. L’unica lotta necessaria per gli studenti e la gioventù italiana ed europea che si chiedono oltre a cosa fare, perché farlo. Il massacro delle scuole e delle università non si fermerà: vogliono decostruire l’istituzione pubblica per eccellenza per giungere al suo razionamento. Ora che l’emergenza sarà costante – dal Covid all’energia troveranno sempre una scusa – a pagare gli orrori dei partiti che negli ultimi anni hanno sostenuto le larghe intese per tornaconto elettorale saranno i giovani italiani e le famiglie. Il numero chiuso universitario sarà declinato in un numero esclusivo per accedere a scuole private, razionali e monoporzione. Solo dopo che saranno subentrate a “salvarci” dal “disastroso sistema pubblico”. È un sistema già rodato, che ha portato via all’Italia lavoro, industrie, banche e terra. Diventa quindi necessario lottare senza tregua contro ogni forma di privatizzazione dell’istruzione in favore di una nuova scuola incentrata alla partecipazione, all’educazione e alla libertà. Basta con le ricette omicide dei tecnici e quelle suicide di opposizioni incaricate di fare da contrappeso per mantenere inalterato l’ordine costituito. Diventare si impone come un imperativo: le nuove generazioni devono uscire dalla stagnazione, a noi il dovere di portarle fuori dalle paludi della disperazione con la leggerezza, il divertimento e la migliore spensieratezza della nostra irragionevole adolescenza. A noi il compito di diventare quella forza motrice senza la quale non può esserci nessun cambiamento. Diventare rivoluzione significa essere in primis noi il cambiamento che vogliamo vedere: “uomini siate e non pecore matte”, “uomini siate e non distruttori”. Costruire: la nostra vita fuori dalle regole democratiche, fuori dai ritmi consumistici, fuori dalla sfera digitale. Costruire: i nostri legami e i nostri progetti in modo che durino, per perdurare nel tempo, senza gli orologi ma con gli occhi ben fissi sui secoli. Costruire: la città di Dioce che ha il terrazzo color delle stelle, è ancora il nostro compito di italiani e di fascisti. Costruire: la nostra Patria italiana ed europea come non si è mai vista, casa comune, cassa di risonanza delle migliori volontà della civiltà. Contro Mosca e Washington sta ancora Roma, città dello spirito: a cento anni dal 1922, la nostra meta è ancora fissa sulle stelle e non c’è nulla da festeggiare perché le feste sono di chi è arrivato, non di chi come noi vuole arrivare. Questa patria o la morte, questa vita o la morte: perché quando siamo caduti ad El Alamein o sul Carso e ci siamo presentati al cospetto degli Dei abbiamo scelto di nuovo questa via: il nostro daimon, il nostro carattere immutabile. Siamo i demoni della giovinezza: non ribelli che resistono, ma rivoluzionari che insistono.
Non “va tutto bene”. E il primo nemico di questa mentalità piccolo-mediocre è proprio la marcia della rivoluzione continua, costante, inesorabile che strappa la vita dai due fatti cardinali di questa società bastarda e senza patria: produzione e consumo. Ci dispiace per voi. Ma c’è qualcosa di più. Il primato dell’azione su tutto: anche sulle nostre vite. Credere, anche contro il buon senso, soprattutto contro il buon senso, che sì – dopotutto, cambierà!
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