Di Sergio

Pubblicato per la prima volta nel 1917, “Markens Grøde” – in italiano “Il risveglio della Terra” o “I frutti-germogli della Terra”, è tornato alle stampe da alcuni mesi nel silenzio (benedetto) del grande pubblico. Perché nel silenzio? Perché seppur del secolo scorso il suo autore – Knut Hamsun (pseudonimo di Knut Pedersen) – è un “maledetto” della storia. Uno di quelli che è meglio dimenticare, anche se sulle spalle porta il peso di un Nobel per la letteratura, anche se con le sue opere ha influenzato tutta la letteratura del novecento.

Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore, Knut Hamsun, non abbandonarmi”. È l’insolita preghiera di Arturo Bandini, l’alter ego di John Fante nel suo celeberrimo romanzo Chiedi alla polvere, del 1939. Una preghiera che letta oggi sa di rivincita rispetto a chi ha voluto relegare lo scrittore norvegese nell’angolo polveroso della memoria, rispetto a chi ha dato alle fiamme la biblioteca d’Alessandria in disprezzo degli Dèi appena tramontati. 

Knut Hamsun non è mai stato perdonato dal tribunale della storia, ma man mano, come un germoglio che si fa strada attraverso la terra, qualcosa torna in superficie dalle rovine dell’Europa. È il caso di “Germogli della terra” – forse non il suo romanzo più celebre – ma sicuramente quello che porta con sé il messaggio più marcatamente rivoluzionario. 

Scrive bene nella prefazione della nuova edizione targata Einaudi, Sara Culeddu – prof.ssa associata di Lingue e Letterature Scandinave presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia – quando cercando la chiave di lettura dell’opera afferma che se “al tempo del Nobel il romanzo fu premiato per la proposta di un epos del lavoro unificante (il lavoro agricolo solidale in opposizione all’alienazione di quello operaio), oggi – a un secolo di distanza – è possibile leggerlo con gli occhi di chi ha assistito al disastro dovuto allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali in nome del capitale”. 

È vero: il libro è marcatamente anti-capitalista e si evince in più passaggi, nemmeno troppo velati, ma non si limita ad un posticcio ecologismo da buon selvaggio. Il libro porta con sé il nume della civiltà europea: lo spirito pionieristico e conquistatore dell’uomo rispetto alla natura, mai trattata come semplice oggetto della speculazione umana, ma innalzata al rango di dimensione divina. 

Non c’è solo lavoro vs precariato, ma qualcosa di più, che risveglia nel profondo gli orologi biologici che abbiamo spento.

È quindi con stupore che vediamo nel grigio delle moderne librerie tornare un libro che di stupore trabocca in ogni pagina. Hamsun ci lascia in quattrocento pagine il manuale per re-incantare il mondo, per tornare a guardare con occhio stupito la benevolenza e la terribile bellezza della natura incontaminata, che se ne infischia della razza umana, nonostante i suoi sforzi immani per piegarla – almeno per il tempo di un raccolto – alla sua volontà. 

Oltre il mito contadino e quello politico del blut und boden (sangue e suolo) nel libro si fa strada la battaglia tra due visioni del mondo, incarnate negli stessi personaggi che si susseguono come foglie sui rami di un albero. 

Da una parte c’è l’uomo bianco – Isak – il pioniere che apre nuovi sentieri nelle terre selvagge della Norvegia settentrionale, sfidando fame, freddo e stenti per accendere un fuoco. Dall’altra parte ci sono i faccendieri, i mercanti, gli speculatori ma anche altri come lui, spiriti liberi, che accorrono nel luogo della fondazione per costruire qualcosa di duraturo. In tutto il libro permane lo scontro tra una visione del mondo sedentaria, radicale, autarchica e familiare contro una visione sradicante, mercantile e ipocrita. 

Sullo sfondo, la natura che non fa sconti e non scende a compromessi perché in campagna “La felicità non coincide con il divertimento”, perché in campagna l’uomo china il capo sulla terra, si fa timoroso, annusa il vento e parla con i pesci degli stagni, mentre sulla testa l’aurora boreale è “un incendio in casa di Dio”. 

Qualcosa – forse le oche che volano nel cielo – parla agli uomini da un’altra dimensione, e allora bisogna stare lì ad ascoltare. 

Le giornate sono luminose e raggianti, buie e solenni, profonde e silenziose. Ma mai piatte come la vita di un impiegato di città. Mai come quelle di chi sopravvive invece di vivere. Chi non sarebbe travolto dalla bellezza della natura e dalle sue energie? Risponde Hamsun dallo scranno del Nobel: “Gli unici giovani ai quali questo sentimento è straniero sono quei giovani conservatori che sono nati vecchi, che non conoscono il significato di essere trasportati via”. Brindiamo quindi a chi sa ancora farsi trasportare dalla passione, “ai giovani di ogni luogo” e “a tutto ciò che, nella vita, è giovane”.

Il libro non va letto però come una favola incapacitante, che ci parla di età dell’oro passate, bucoliche arcadie ormai belle e perdute. 

La vita di campagna è dura, c’è poco spazio per le favole. L’incanto semmai è nei gesti che si ripetono attraverso i millenni come un rito, componendo un unico grande poema della terra, che oggi – circondati come siamo dall’effimero, fluttuante, asettico stile di vita occidentale – può ricordarci che la vita larvale che molti di noi conducono non è l’unica possibile, che la natura è una potenza da incarnare: una forma da assumere nelle nostre vite perché “i germogli della terra bisognava conquistarseli a qualsiasi prezzo”, perché bisogna chinarsi a raccogliere, lavorare e faticare per costruire quella dimora dell’eternità che abiteremo insieme a chi ci ha preceduto e a chi ci seguirà, senza – badate bene – farsi intrappolare nei gangli della “retorica e della semantica”. Perché come mi ha detto qualcuno c’è da lavorare parecchio sulla rivoluzione, nei campi come su noi stessi.

Questo libro è una perla da non lasciarsi sfuggire, perché riproduce il canto originario della terra e rappresenta il miglior antidoto agli stress quotidiani. Mettetelo nelle vostre air-pods e anche in una metropolitana affollata avrete gli occhi sulla bellezza sconfinata di terre selvagge e incontaminate. 

Perché quello che i gretini non dicono mai nei loro deliri catastrofisti, è che la natura, o sarebbe meglio dire l’ambiente, gli ecosistemi, i paesaggi, sono lo specchio dell’uomo. Se l’uomo è precario, sradicato, claustrofobico, isterico, distruttivo è così che l’ambiente continuerà a mutare. Come pretendono gli uomini di paglia di salvare il pianeta? È molto più probabile che finiscano di distruggerlo. 

Gli uomini che hanno il deserto nei propri cuori non potranno far altro che avanzare il deserto. Ma se bensì si lavora sull’uomo, sul suo lavoro, sulla sua casa, allora si lavorerà di riflesso anche sul suo ambiente. Non saranno consumatori digitali abitanti di monolocali in sub-affitto che vivono in città fogna a poter immaginare nuovi spazi per l’avvenire.

Non servono tranquillanti o terapie. Ci vuole un’altra vita” cantava Franco Battiato. “Non è di investitori e di soldi che ha bisogno il paese ma di uomini come Isak, che sanno usare l’aratro e andare lenti, camminare al ritmo della vita”, canta Hamsun. 

Ma non è certo un inno alla debolezza o alla decrescita, anzi. L’innovazione è sempre stata mossa dal lavoro della terra. Non è questo il punto. È di uomini che sappiano portare le macchine che il nostro paese ha bisogno. Uomini e donne che sappiano incarnare il tipo europeo: pioniere, lavoratore, conquistatore, padre e madre. 

Un’antenna drizzata sulle potenze che si muovono intorno a noi. Così, anche una ragazzina che accende il gas in cucina sarà “una vestale” e gli uomini potranno ancora dire, tra boschi e metropoli, che “ogni cosa è sublime e potente” e che “tutto ha un senso e uno scopo”. Andate in libreria prima che si accorgano del danno che hanno fatto.