di Michele

Nel vedere The Green Knight si ha l’effetto di vedere un guscio vuoto, una nuvola di colori che svapora. L’estetica di un medioevo sospeso e incantato viene resa con maestria, un mondo di mezzo tra la fiaba e la guerra, tra briganti e santi, tra dame e cavalieri. Ciò che manca è il resto.

Distribuito in Italia da Amazon Prime, The Green Knight è l’ultima opera di David Lowery, registra e sceneggiatore americano. Il film prende le mosse da Sir Gawain e il cavaliere verde, anonimo poema cavalleresco del ciclo arturiano. Si distingue per un grande impatto visivo capace di uscire da i soliti cliché di un fantasy ormai abusato. Ma se Sir Gawain e il Cavaliere Verde è l’episodio di un eroismo che vacillando trova sé stesso, The Green Knight è il racconto di un fallimento.

Quel gioco tra il macabro e il guascone che è Sir Gawain e il Cavaliere Verde viene rovesciato. Gawain diventa un inetto. La corte di Camelot ha qualcosa di lugubre e logoro, distante da quella gioventù invincibile, da quella Tavola Rotonda “in splendida festa e spensierato piacere”, da quei cavalieri “nella loro età prima” e “sotto i cieli i più felici”, allegri e coraggiosi per cui “duro sarebbe menzionare così ardita compagnia”. Quell’Artù che “tanto era felice della sua giovinezza / e un po’ fanciullesco” e che “amava gaia la vita e non gli piaceva stare a lungo disteso o seduto” viene rappresentato come un vecchio stanco. Sottotraccia viene lasciato intendere un certo malumore, una lotta intestina in cui Morgana, nel film madre di Gawain e sorella di Artù, rappresenta un principio matriarcale in contrasto con quello patriarcale di Artù.

L’episodio centrale del poema quanto della pellicola è la sfida che il misterioso Cavaliere Verde lancia alla Tavola Rotonda la notte di capodanno. Questi che pare un “mezzo gigante”, non spaventa solo per l’enormità della sua figura, ma perché dagli abiti alla carne è tutto di colore verde “al suo colore stupirono tutti, / così chiaro a vedersi: / era fiero nel portamento/ e ovunque verde brillante”. Alla corte propone un gioco singolare: riceverà un colpo, con la sola condizione di poterlo restituire dopo un anno e un giorno. Si propone Artù, ma Gawain interviene e prende il suo posto. Afferra dalle mani del Cavaliere Verde la sua ascia, la alza nell’aria e con un taglio netto recide la testa del Cavaliere dal tronco. Quest’ultimo come se niente fosse riacciuffa la testa da terra, risale sul suo cavallo e abbandona Camelot, ricordando a Gawain la promessa fatta: tra un anno e un giorno, un identico colpo.

Il film di Lowery indulge sulle peregrinazioni di Gawain per arrivare alla Cappella Verde, dove il Cavaliere Verde abita e gli ha dato appuntamento. Ma lo fa per far emergere ancora di più le fragilità e le bassezze del suo Gawain, che riesce perfino ad avere la peggio con una banda di briganti poco più che ragazzini. Lowery procede con una decostruzione continua e insistente della figura di Gawain. È un fallito che passa il suo tempo a gozzovigliare e fuggire dalle sue responsabilità. Il suo rango richiederebbe ben altro. Le aspettative che gli altri hanno su di lui lo soffocano, però non fa altro che cercare la via facile. Ci ritroviamo così un personaggio scisso, debole, complessato. La prova con il Cavaliere Verde è una scappatoia, un modo poco impegnativo per avere fama. Fallisce pure sul piano sentimentale per troppo egoismo, non ha la rettitudine forse un po’ goffa dell’amor cortese. Scompare il gioco amoroso e il tema della caccia che tanta parte ha nel poema. Non c’è quella reciprocità di qui è intessuto tutto Sir Gawain e il Cavaliere Verde. C’è solo individualismo e vigliaccheria.

Per quanto un Gawain così poco eroico dovrebbe risultare più vicino, non ci si riesce davvero a immedesimare. Risulta addirittura fastidioso, antipatico. Diventa un sollievo il diverso esito della sua cerca. Se in Sir Gawain e il Cavaliere Verde Gawain se la cava con un graffio sul collo, perché capace di dimostrare la propria drittura interiore, in The Green Knight il colpo del Cavaliere Verde è fatale. Morire rappresenta l’unico atto di coraggio del Gawain di Lowery. Quasi una redenzione. Ha infatti la visione della propria vita se dovesse sottrarsi al colpo e fuggire. Una vita che sarebbe perfino coronata da un successo apparente, ma minata nelle fondamenta da quell’atto di viltà.

Un sacrificio di sé stesso che è quantomeno singolare. Infatti, per Coomaraswamy il senso più profondo di Sir Gawain e il Cavaliere Verde è proprio il tema del sacrificio. Non un sacrificio qualsiasi, ma quello dell’Uomo primordiale – qui impersonato dal Cavaliere Verde. Ciò produce quello smembramento macrocosmico “in cui tutti gli esseri possono nascere e realizzare le loro potenzialità originariamente inibite”. È la suddivisione di Ymir da cui si origina il cosmo. Questo taglio è tuttavia anche la rottura di un equilibrio e quindi un peccato da espiare. Ciò istituisce quella reciprocità per cui il sacrificatore deve divenire egli stesso vittima sacrificale: “se il Sacrificio non comportasse sia un atto di disintegrazione sia uno di reintegrazione, non potrebbe servire, come invece fa, a «conquistare entrambi i mondi»”. Ciò vale anche sul piano individuale. Il colpo d’ascia che dovrebbe ricevere Gawain e che invece lo salva, significa l’uccisione dell’Io materiale ed egoistico, il quale viene ricompreso e innalzato in una dimensione spirituale.

Ma questo appunto è un compito eroico, cosa che il Gawain di The Green Knight non è. Il suo morire è passare da una negazione all’altra, dalla tenebra ad altra tenebra, da quel particolare non-io che è il suo egoismo, al non-io della morte. Vive prima la perdizione di un eccesso individualistico e poi di un eccesso nel senso contrario. È un bambino capriccioso che al posto di diventare adulto torna nell’utero della madre, o meglio della Grande Madre, che è l’oscurità del non-essere dove tutto è informe. Manca la scintilla dell’Io spirituale, il fuoco degli eroi.