Di Luca

Pochi giorni sono trascorsi dal giorno del Ricordo, il giorno istituito per ricordare il massacro e l’esodo di migliaia di italiani dall’adriatico orientale.

Unico magro contentino concesso dalla repubblica italiana, in oltre 75 anni, per onorare i figli caduti, mentre nel frattempo le scuole pullulano di professorini ideologizzati che sminuiscono i fatti di quegli anni ed organizzano conferenze con sedicenti “storici” filo-titini, che poi vediamo scappare a gambe levate quando viene proposto loro di parlare con un contraddittorio.

Come ogni anno, in questo periodo, ma non solo, ci mettiamo in gioco come italiani per onorare la memoria dei nostri connazionali oltre alle iniziative istituzionali, decisamente insufficienti per far comprendere ai giovani il ruolo fondamentale che le vicende dell’adriatico orientale ricoprono nella storia d’Italia fino ai giorni nostri.

Con questo articolo si vuole ricordare un fatto sconosciuto ai più. Un fatto terribile ma incredibilmente rappresentativo di quella che fu la persecuzione della nostra gente nelle terre d’Istria e Dalmazia e del clima che si respirava in quelle zone nel secondo dopoguerra.

Quella di Vergarolla è stata la più grave strage avvenuta nella storia della Repubblica Italiana, sia in fatto di vittime e feriti ma ancor di più per i metodi vili di esecuzione.

Siamo a Pola ed è il 18 agosto del 1946, la guerra è finita e l’adriatico orientale è teatro di forti contese politico/diplomatiche fra le forze alleate occupanti il territorio italiano che per le truppe jugoslave del maresciallo Josip Broz (Tito).

Il territorio era stato diviso in due aree al termine delle ostilità: L’area “A” comprendeva i territori della Repubblica italiana, gestiti militarmente dagli alleati; poi l’area “B” occupata dalle forze jugoslave e divisa dalla prima da un confine detto linea Morgan.

Pola era una città quasi totalmente Italiana e la popolazione era ovviamente contraria all’annessione nella Jugoslavia. Per questa ragione era stata collocata nella zona A divenendo di fatto una enclave italiana in territorio jugoslavo. Non serve aggiungere quanto fosse sgradita la cosa al partito comunista essendo concesso a Pola, al contrario del resto dell’Istria, la libertà di espressione dei propri sentimenti nazionali e la pubblicazione di stampa non controllata dal Partito. Si godeva anche di una certa libertà di organizzazione di manifestazioni politiche pubbliche anche se sotto il controllo delle forze militari angloamericane.

Quel giorno si si sarebbero disputate sulla spiaggia polesana di Vergarolla le gare natatorie per la “Coppa Scarioni”. La presenza era massiccia, non era un semplice evento sportivo ma un momento di aggregazione, tanto che fu definito dal giornale locale “l’arena di Pola” una vera e propria manifestazione di italianità.

Sulla spiaggia erano ammassate diverse tonnellate di materiale bellico, circa 28 mine antisbarco ed altre testate di siluro, le quali erano state disinnescate dal componente militare inglese e controllati anche da soldati italiani, certi della messa in sicurezza degli ordigni, tanto che la gente del luogo era solita stendervi i costumi ed i bambini giocarci sopra.

Quello che doveva essere un momento di spensieratezza si tramutò in una tragedia quando la fumata della miccia ed il colpo secco del detonatore innescarono gli ordigni, oltre nove tonnellate, che esplosero in sequenza disintegrando tutto ciò che si trovava loro vicino.

Le membra delle vittime piovvero su tutta la zona, nella pineta, sui natanti e in acqua.

Il boato si udì in tutta la cittadina dove ebbe la forza di rompere perfino molte vetrate.

L’esito fu terribile, e le poche immagini della tragedia sono strazianti.

Le salme identificate furono solo 65, causa la potenza delle esplosioni, ma i corpi rinvenuti fanno salire il bilancio a oltre 116 vittime, in gran parte bambini, e 211 feriti.

Un medico, il dottor Geppino Micheletti, era di turno all’ospedale locale “Santorio” nonostante avesse perso nell’esplosione i figli Carlo e Renzo, di 9 e 6 anni, oltre al fratello e alla cognata, continuò ad operare 24 consecutive per salvare vite, divenendo un simbolo di eroismo di quella vicenda.

“Pola è in lutto – La guerra non è finita…” il titolo del quotidiano locale fa trasparire l’esasperazione di quella città già straziata dai bombardamenti alleati e dal partigianato Jugoslavo, non riusciva a trovare la pace.

Sulla stampa italiana la notizia apparve nel quotidiano del partito comunista italiano “L’unità” che subito scaricò la colpa sugli angloamericani i quali non avrebbero rimosso le mine dalla spiaggia, schierandosi subito a difesa degli interessi di partito e togliendo ogni responsabilità ai compagni Jugoslavi, da loro totalmente sostenuti, in contrapposizione agli americani, loro alleati fino a poco tempo prima che erano diventati, secondo loro, “servi del fascismo”.

Non furono mai accertate le responsabilità della strage, ma con tutta certezza il fatto non è stato accidentale. Le bombe non potevano esplodere da sole se non riattivate e fatte detonare. 

Le indagini da parte degli inglesi procedevano a rilento e sembravano non essere realmente intenzionati a trovare un colpevole, il che infastidì molto i familiari delle vittime.

Dietro all’attentato con grande probabilità vi sono gli agenti dell’OZNA, la polizia segreta della Jugoslavia comunista. Quelle esplosioni volevano lanciare un messaggio chiaro “Gli italiani non sono i benvenuti, ve ne dovete andare”.

La tragedia finì per alimentare definitivamente la possibilità dell’esodo, che già covava nei sentimenti dei nostri connazionali, che non avevano alcuna intenzione di finire sotto il giogo del regime comunista anti-italiano di Tito, che li aveva perseguitati e massacrati negli anni precedenti.

L’esodo fu l’ultima spiaggia e l’accoglienza in patria fu delle peggiori.

I profughi vennero bollati come fascisti e traditori del Compagno Tito da parte dei comunisti italiani che diedero atto a fatti come quello del “Treno della Vergogna” del febbraio 1947.

Sputi, sassi, il cibo ed il latte destinato ai bambini versato sui binari dai militanti di PCI e CGIL e poi anni ed anni di inaccettabile silenzio, questo è stato il trattamento riservato a chi fu costretto a lasciare tutto ciò che aveva perché strappato via dalla bestia rossa.

Ancora ogni anno questi fatti vengono taciuti, nelle scuole e da parte delle istituzioni che trattano le vicende con incredibile superficialità e lasciano spesso spazio, a chi nega o sminuisce ciò che è accaduto.

Non basta un minuto di silenzio, anzi bisogna parlare, confrontarsi sulla questione dell’adriatico orientale in maniera libera da preconcetti e ideologismi di ogni tipo.

Perché non è una semplice una storia, è la nostra storia, senza sapere da dove veniamo non riusciremo mai a capire quale sarà il destino per il nostro popolo.