di Michele
Un volumetto a firma di Adinolfi, Anselmo, Boco e Scianca, una sfida lanciata, un fuoco acceso nella notte, questo è Prometheica – rassegna di studi sul sovrumanismo, la tecnica e l’identità europea. Uscito nel solstizio d’inverno dell’anno appena trascorso, ha già scosso, provocato, perfino scandalizzato e al contempo fatto innamorare di sé. Una luce nella notte più oscura, già questa sarebbe una bella immagine. L’invito è chiaro, riappropriarsi della tecnica, spingersi avanti e più oltre. Come Prometeo che ruba il fuoco della conoscenza, così l’uomo europeo se ne deve riappropriare. Contro un’epoca di stagnazione, contro ogni piccolezza spirituale. Strappare la tecnica dalle mani indegne di chi oggi la detiene ma la riduce a fattore di comfort o di controllo, senza una volontà di potenza che la innervi.
L’uomo è naturalmente tecnico, l’uomo europeo è spinto in avanti verso la conquista. La tecnica insomma è roba nostra. Bisogna ripartire da qui, ridare le giuste coordinate intellettuali per costruire una vera azione nel mondo. Un’operazione che non è né fine a sé stessa né inconcludente, ma che anzi ci costringe a pensare e costruire il futuro. È vero ci muoviamo in un campo che è dominato dal nemico, dalla perversione della tecnica, dal rimpicciolimento dell’ultimo uomo. Ma seguendo una bella immagine contenuta in Tecnoprimitivismo di Sievers, siamo come predoni vichinghi che razziano le città nemiche, piccoli gruppi di uomini affratellati dalla lotta e dai pericoli, con uno scarno bagaglio, una ferrea legge interna per il drakkar, un mobile principio di conquista per l’esterno. In altre parole «noi oggi combattiamo con un corpo sociale esausto, devastato da continui incitamenti, da un pensiero debole relativista che ha privato della luce identitaria dell’uomo indo-europeo e che continua a privarci di qualunque ritrovato possa in teoria risollevare le nostre sorti», per questo «la sfida è celarsi tra le pieghe dell’indeterminato, preparando il più clamoroso agguato alla Storia che il genere umano abbia mai visto».
Una dimensione comunitaria che supera l’accelerazionismo di Nick Land, per il quale in fondo accelerazione significa uscita, equivale all’individuo che trova una crepa nel sistema e la usa per scappare via dallo Stato-Cattedrale, più prosaicamente da tasse e pensiero unico. Ma allora a che serve accelerare, farsi avanti, andare incontro all’incerto e al pericolo? Significa lasciare la sicurezza romantica di un altrove, che in fondo è un’esigenza borghese da rifiutare. Accelerare diventa trascendere, da un movimento orizzontale si passa ad uno verticale. Accelerare significa accettare una sfida esistenziale e spirituale, come scrive Marinetti, «superare, superarsi, o non essere».
In fondo, contro i veti moralistici, contro un falso naturalismo, contro uno spiritualismo vuoto, si può affermare che la tecnica è innanzitutto uno sforzo spirituale. È l’uomo che, nella sua nobiltà e nella sua eccezionalità, dimostra con la tecnica la propria superiorità, il proprio sovrappiù di forze, la propria capacità di progettare e dare forma al mondo. Non c’è opposizione fra naturale e artificiale, ma solo tra debolezza e forza. E se anche ci fosse questa opposizione, la parte della naturalità è quella dell’animalità, dei bisogni fisiologici, della materia.
Quando il Dio cristiano dice «guardate il volo degli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre” o ancora “perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano», è un messaggio smobilitante che squalifica l’agire umano in nome di un ritorno alla natura che in realtà è un ritorno all’essere animale. Al contrario, possiamo e dobbiamo opporre una visione attivistica del mondo, per cui «l’artista [téchne in greco significa appunto «arte» e «artista» vale quanto «artefice»] non è un uomo speciale, ma ogni uomo che non sia in qualche campo un artista, o non abbia una sua vocazione, è un pigro». Leggendo fra le righe di questa citazione di un pensatore tradizionalista come Coomaraswamy, l’uomo per adempiere a sé stesso deve agire sul mondo, questo agire, che è indistinguibile da un saper fare, è la tecnica.
Nel divieto giudeo-cristiano all’agire, c’è anche la trasformazione simbolica di Prometeo in Lucifero. Senza sfociare in una lettura satanica, si può ricondurre la figura di Prometeo ad un certo titanismo. Tralasciando le questioni mitico-simboliche più profonde, come la comune origine titanica dell’olimpico Zeus, questo titanismo, questa trasgressione dell’ordine prestabilito ci restituisce qualcosa di molto importante. Quella della tecnica è una prova che può avere esito favorevole o sfavorevole, può precipitare negli inferi o innalzare ad una dimensione eroica e sovrumana. La trasgressione insita in questo gesto deve essere ricompresa da un ordine superiore, è l’immagine di Eracle che libera Prometeo dalle sue catene. Infine, la trasgressione è necessaria, l’ordine che abbiamo di fronte è infiacchito, in altre parole non c’è nulla da conservare. Qui Prometeo si incontra con Loki, il fuoco deve portare al crepuscolo degli dèi, al Ragnarok: distruggere per poi ricostruire.
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