di Michele
Uno dei più importanti pensatori del mondo non conforme è ancora semisconosciuto. Parliamo di Giorgio Locchi, filosofo e corrispondente italiano da Parigi per Il tempo. Figura chiave e segreta del secondo novecento, che ha direttamente influenzato personalità come Alain De Benoist e Guillame Faye, o, per quanto riguarda l’Italia, Stefano Vaj.
Negli ultimi anni stiamo assistendo a varie iniziative editoriali che stanno portando ad una riscoperta del pensiero locchiano. Su questa scia si inserisce il saggio di Giovanni Damiano, Il pensiero dell’origine in Giorgio Locchi, pubblicato in questi mesi da Altaforte. Un libro in questo senso necessario, capace di introdurre Locchi a chi ancora non ha confidenza con questo autore e, allo stesso tempo, di offrire visuali nuove.
Merito di Damiano è quello sottolineare la dignità filosofica di Locchi, ricordandoci l’importanza che ha la riflessione sul senso della storia nel dibattito dell’idee di quegli anni e di come il contributo locchiano su questo argomento sia originale e fondamentale.
In estrema sintesi, l’elemento che contraddistingue Locchi è la sua visione del tempo in quanto tempo sferico o tridimensionale. Questo si contrappone sia ad una visione lineare, propria del cristianesimo e del progressismo, sia ad una visione ciclica, propria dell’antichità. Nella visione lineare del tempo la storia viene negata, poiché il suo fine ultimo è posto fuori di essa. Il progresso e la salvezza hanno già una tappa finale, la storia sarebbe solo il necessario sviluppo per arrivare a questa meta, ma il senso della storia è chiuso: tutto è già stato deciso. La visione circolare non sarebbe altro che una visione regressiva, in cui la meta anziché alla fine viene posta all’inizio.
Si potrebbe discutere se effettivamente quest’ultima fosse la visione del mondo antico. Fatto sta che la contrapposizione fra tempo lineare e tempo sferico si riflette in quella fra progressisti e conservatori, rimanendo comunque valida su un piano politico.
Come nota giustamente Damiano questa preoccupazione di Locchi per la storia non è fine a sé stessa: “sarebbe un errore fatale ridurre la sua opera a una sorta di storicismo”. Ma si riconnette piuttosto al problema della libertà. Mantenere una “apertura della storia” significa salvaguardare lo spazio autentico della libertà umana.
Il pensiero di Locchi si muove su di un crinale pericoloso. Se non si può ridurre l’uomo ad un determinismo che ne immobilizzerebbe l’agire, una libertà assoluta sarebbe come una libertà nel deserto: inutile. Il richiamo locchiano all’origine è qui decisivo. Nell’origine essere e inizio si conciliano. Nella visione sferica del tempo l’origine è sempre disponibile in avanti. Non un nuovo inizio come creazione dal nulla, non la nostalgia per tempi perduti per sempre, ma l’essere che si svela nel divenire, come una fonte che inizia a sgorgare, come un mito da incarnare.
La storia e l’essenza stessa dell’uomo rimangono come un campo di battaglia, come una sfida sempre da rinnovare, in altre parole come qualcosa di conflittuale e per questo libero. Ed in questo senso sono la stessa cosa: la storicità è la “costituzione essenziale” dell’uomo perché l’uomo non è un puro nulla o qualcosa di chiuso per sempre, ma è un divenire.
Questa immagine dell’uomo è quella propria di quella tendenza che Locchi chiama sovrumanista e che vede in Wagner e Nietzsche i suoi propriziatori. Al contrario, se la visione lineare nega la storia, di fatto nega anche l’autentico essere dell’uomo. Ciò spesso avviene in nome di un essenzialismo umanistico che però estromette l’uomo da sé stesso, riconducendolo a qualcosa di altro da sé. Questo è quello che fa la tendenza egualitaria quando riduce l’uomo ai suoi bisogni materiali o a diritti che si presumono universali. Uno dei principali meriti di Locchi è proprio quello di aver tematizzato la nascita del nuovo mito sovrumanista ed il conflitto con la tendenza egualitaria.
Abbiamo accennato al mito. Damiano fa risaltare per contrasto la visione locchiana di mito rispetto quella di “materiali mitologici” di Furio Jesi in cui di fatto questi rappresentano solamente uno strumento di potere, e rispetto quella sclerotizzata delle “società fredde” di Lévi-Strauss. Per motivi opposti entrambe non sanno coniugare spazio storico e spazio sacro nel mito. Per Locchi il mito è «continua autopoiesi, creazione incessante di sé stesso, e non in una storia sacra, nell’illud tempus, in una eternità rarefatta e priva di vita». È quindi qualcosa da attualizzare, è «energia latente, forza sopita, in attesa di qualcuno o qualcosa che lo desti nuovamente». È misura ontologica a cui l’uomo deve richiamarsi nel suo fare esistenziale.
Se ogni nuovo inizio è anche un ritorno al passato, il libro di Damiano non sfugge a questa regola. A conclusione di esso vi è infatti una interessantissima postfazione del figlio di Giorgio Locchi, Pierluigi, che getta luce sul materiale inedito del padre, lasciando ben sperare per il futuro.
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