Di Moro

È ormai fattuale: la Cina non è più quella nazione impoverita dove la manodopera ha un valore prossimo allo zero. Le riforme economiche attuate a partire da Dèng Xiǎopíng hanno avuto l’effetto desiderato: particolari Zone Economiche Speciali si sono trasformate da piccoli villaggi a metropoli tentacolari, con scali infrastrutturali e poli industriali capaci di sostenere talvolta anche un terzo del commercio globale. Città come Pechino, Shànghǎi e Shēnzhèn sono oramai divenute più prospere e costose di una qualsiasi città europea, con una classe media in continua espansione e la povertà che si accinge a rimanere unicamente nelle memorie degli anziani.

Un intoppo potrebbe però stroncare le speranze cinesi: la cosiddetta Trappola del Reddito Medio. Il principale vantaggio del lavoratore cinese era una disciplina del lavoro ferrea affiancata a una concorrenza al ribasso dei salari. A valorizzare questi aspetti era poi il governo cinese, che con programmi di sviluppo infrastrutturale, semplificazioni legislative e lo sfruttamento delle imponenti risorse naturali, rendeva il regno di mezzo una necessità per qualunque industriale volesse rimanere competitivo sul mercato.

Oggi, però, il lavoratore cinese si ritrova molto più istruito. Le sue esigenze aumentano, così come aumentano i salari. Dal 2010 al 2020 il PIL pro capite PPA (a Parità di Potere d’Acquisto) è passato da un già elevato 9.300 a più di 16.400. Salari inimmaginabili per chi ha vissuto le riforme di Dèng. Questo implica che non solo gli industriali stranieri, ma anche gli stessi cinesi cerchino una nuova regione a basso reddito dove produrre beni di consumo. Ciò che ne consegue è (in parte) una fuga di capitali che, se mal gestita, potrebbe implicare la permanenza di Pechino tra le nazioni a reddito medio.

Un altro ostacolo che si oppone alla presidenza di Xí Jìnpíng è la guerra commerciale cominciata con Donald Trump. L’innalzamento di dazi, con il successivo accordo commerciale nel 2020, ha parzialmente riequilibrato la bilancia commerciale Cina-Stati Uniti, riducendo momentaneamente il deficit sul netto importazioni-esportazioni di Washington. Oltre a questo, ha portato anche diversi industriali a tenere in considerazione l’eccessiva dipendenza dei mercati verso la Cina.

La guerra commerciale ha portato grandi multinazionali straniere a deviare i processi produttivi verso più regioni. Il Giappone ha promesso ingenti incentivi a quelle aziende che avessero deciso di spostare la loro produzione dalla Cina. Da questo punto di vista, la recente opera di regolamentazione economica di Pechino, aggiunta alla crisi finanziaria innestata dalla bolla immobiliare di Evergrande, altro non ha causato che ulteriori diffidenze negli imprenditori stranieri, portandoli a doversi cercare una nuova Cina.

Il processo è chiaramente lungo e complesso, ma già alcuni candidati iniziano ad uscire dall’ombra del Dragone. Dalla Nigeria al Messico, dall’India all’Etiopia, alcune nazioni stanno assorbendo la volontà crescente di diversificazione. Il caso degno di più attenzioni è sicuramente quello del sud est asiatico, che negli ultimi anni ha conosciuto tassi di crescita spaventosi, degni della Cina di Dèng.

Questa regione del mondo potrebbe risultare la protagonista del mondo post-Covid. L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) raggruppa infatti nazioni con una manodopera poco cara ma sufficientemente istruita, che realizza notevoli progetti infrastrutturali e gode della presenza di risorse naturali. La volontà dei reciproci governi è quella di garantire la pace nella regione, portando progetti di sviluppo all’insegna dell’integrazione economica e dell’ecosostenibilità. Un notevole cambiamento, considerando che l’Associazione era nata durante la guerra fredda come un’alleanza in chiave anti-comunista.

Oggi essa comprende anche quelle nazioni nominalmente comuniste. Si espande infatti nella regione indocinese, la Birmania, la Tailandia, il Vietnam, la Cambogia e il Laos si connettono quindi, attraverso lo stretto di Malacca ospitante Malesia e Singapore, alla regione dell’arcipelago malese, comprendente Indonesia, Brunei e Filippine. Stati che presi singolarmente godono di un PIL-PPArelativamente basso, ma che insieme toccano i 9.000 miliardi. Valori stratosferici se si considera che nel 2010 era di 3.000 miliardi.

In questo contesto, lo stretto di Malacca e il mar Cinese meridionale rendono questa regione ulteriormente strategica, in quanto qui vi passa oltre un terzo del commercio globale. Questa posizione ha già in fondo fatto la fortuna della città stato di Singapore, una delle più care in termini di costo della vita. Oggi la ricchezza qui accumulata funge da fulcro per gli investimenti nella regione, in maniera simile a come fece Hong Kong per la Cina.

Grazie anche all’attività estrattiva di Malesia e Brunei, che pure fungono da poli tecnologici, vediamo quindi nascere molteplici siti produttivi in territori come la Tailandia, le Filippine, l’Indonesia e la Birmania, anche se a rappresentare il fiore all’occhiello di questo processo è il Vietnam. Sull’esempio della Cina, il partito comunista locale ha infatti avviato una forte riforma del mercato che ha portato un sistema misto, dove il privato ha una maggiore libertà di movimento rispetto ad un sistema puramente collettivista.

Grazie a ingenti finanziamenti nei settori delle infrastrutture e dell’istruzione, il Vietnam è riuscito quindi ad attirare l’attenzione degli investitori più di quanto altri colossi come l’India non siano mai riusciti a fare. Capitale umano e avanzamento di porti e strade concorrono in maniera fondamentale a questo aspetto. Il Vietnam sta scalando le classifiche dei maggiori partner commerciali di Europa, Cina e Stati Uniti. Con Washington che paradossalmente cattura la fiducia dei vietnamiti più di quanto non faccia Pechino.

Le relazioni tra ASEAN e potenze internazionali rappresentano un nodo giordano che comunque contribuisce a mantenere le pressioni in equilibrio. Con la Cina i rapporti sono ambivalenti. La nuova via della seta contribuisce in maniera determinante allo sviluppo delle attività infrastrutturali ed economiche, gli investimenti del Dragone sono mastodontici e onnipresenti.

Dalla regione dello Yúnnán partono i corridoi che si concludono nel porto di Kyaukpyu in Birmania, costruito praticamente ex novo dai cinesi, e in quello di Bangkok, con una rete di strade e ferrovie che promettono di proiettare Laos, Cambogia e Tailandia nel futuro. Allo stesso modo, rilevanti dal punto di vista degli investimenti di Pechino sono le Filippine e, in maniera ancora più evidente, l’Indonesia. L’isola indonesiana di Giava, ospitante 147 milioni di abitanti, progetta di diventare iperconnessa ed economicamente matura proprio grazie agli investimenti promessi da , questo anche grazie ad un piano di semplificazione legislativa che ha reso l’enorme arcipelago una delle nazioni in cui è più facile fare dell’impresa.

Nonostante gli investimenti cinesi – talvolta autentiche trappole del debito – l’ASEAN deve anche tenere in considerazione la crescente aggressività del governo di Pechino. La questione del Mar Cinese Meridionale ha già portato il Vietnam ad abbracciare la protezione statunitense, la cui marina di recente ha attraccato nel porto di Hà Nội. L’ultima volta che una portaerei americana fu vista in acque vietnamite erano i tempi della celebre guerra. I legami tra le due ex nemiche sono soprattutto in virtù di un atteggiamento di forte valorizzazione operato dalla presidenza americana, ricambiato dalla volontà dei Charlie di trovare un alleato al fine di contenere – senza realmente combattere – l’influenza cinese.

Vedi anche: https://www.bloccostudentesco.org/2021/09/17/bs-mar-cinese-meridionale/

A questo atteggiamento di ostilità si contrappone tuttavia la benevolenza di Cambogia, Birmania Laos e Indonesia. Le Filippine, fino a pochi anni fa solide alleate degli Stati Uniti, si sono ritrovate a riconsiderare l’influenza di Pechino dopo che Washington non le ha prestato assistenza quando la marina cinese ha occupato l’atollo di Scaraborough, rivendicato da Manila. Al voltafaccia americano, la Cina vi è subentrata con ingenti finanziamenti e oggi l’arcipelago rimane in un relativo quanto fragile equilibrio.

A questa divisione politica, incentivata dalla lotta cino-americana nel pacifico, l’ASEAN sta rispondendo rilanciando la sua unità. Questo fenomeno potrebbe presto dare i natali ad un blocco indipendente, in maniera simile a come stanno facendo il Turkestan e la Mezzaluna Sciita. Eppure, le nazioni del sud-est asiatico potrebbero in realtà non optare per una linea espansionistica nonostante la loro agenda punti a rendere la regione la nuova “fabbrica” del mondo. Il motore di questa grande edificazione potrebbe in realtà essere quello del potere economico, unito ad un soft power e al bilanciamento dei poteri in un’ottica di collaborazione multilaterale e integrazione su modello vagamente europeo.

Il solo ostacolo è rappresentato dalla frammentazione politica, l’ASEAN funziona con la logica del consenso comunitario. Tuttavia, è scossa da numerose turbolenze interne. Ognuna delle nazioni vede l’attività di movimenti armati e militanti di varia natura. Pochi di questi possiedono le capacità militari per contrastarli. Casi evidenti sono l’insorgenza dell’ISIS nelle Filippine, il colpo di stato in Tailandia e il separatismo presente in numerose isole indonesiane. Si sta dibattendo persino riguardo l’espulsione di un suo membro: il Myanmar. La repressione operata dal governo birmano ai danni delle minoranze, popoli come i Karen e i Rohingya, unita al recente colpo di stato stanno portando diversi statisti e analisti a invocarne l’allontanamento.

Nonostante divisioni, crisi e pandemie, però, il sud-est asiatico continua a marciare compatto. Grazie alla collaborazione tra nazioni sovrane, ne sta risultando un blocco politico ed economico capace di ribaltare gli scenari globali e di manipolare le forze che incombono su di lui. La crescita della regione viene spesso caratterizzata da doppie cifre, come quella del Vietnam, una delle più imponenti della storia. Se quindi la pandemia ha favorito qualcuno, costui, prima ancora del governo di Pechino, sarebbe l’istituzione dell’ASEAN.

Inutile dire quindi come la Cina del domani non sarà una nazione in particolare, ma una regione che pure conta 667 milioni di abitanti. Occorre però anche sottolineare come nel futuro difficilmente uno stato, o un blocco di stati, riuscirà ad arrivare alle cifre di produzione record raggiunte dalla Cina post guerra-fredda. Vi saranno piuttosto diversi poli che comunque non impediranno ad una regione ieri tra le più povere al mondo di scalare gli indici globali.

È logico quindi che le principali economie planetarie si stiano aprendo all’ASEAN, accordi commerciali e di integrazione economica con l’associazione sono sempre più frequenti. L’Unione Europea si è mossa anche su questo fronte, La Farnesina pure è operativa nel discutere e operare molteplici iniziative con questa regione dell’Indo-pacifico. Quello in cui possiamo sperare è che la nascita di nuovi blocchi sul modello dell’ASEAN porti finalmente al superamento dell’oligopolarismo tra superpotenze, aprendo finalmente ad un mondo multipolare fatto di nazioni e prospettive più vicine a popoli e territori.