Di Lemmy
«Allora eravamo in guerra contro il padrone, lo sfruttamento, la madama. Oggi invece c’è una guerra senza quartiere, ed è impossibile distinguere i buoni dai cattivi.»
Pelè
Se oggi si pensa alla criminalità organizzata milanese, la prima cosa che viene in mente è sicuramente l’intreccio di interessi tra mafie e poteri finanziari, le infiltrazioni della ‘ndrangheta e le vicende delle famiglie Tatone, Barbaro e Papalia. Ma non è sempre stato così: fino a non molto tempo fa, la malavita milanese era tutta un’altra cosa.
Il periodo d’oro della Ligera andò dall’immediato dopoguerra fino agli anni Ottanta, quando questa venne lentamente soppiantata dalle mafie provenienti dal sud Italia. Per quanto riguarda l’origine del termine, non esiste un’etimologia certa: la tradizione popolare lo fa derivare dall’aggettivo “leggero”, riferito di volta in volta, a una persona instabile, a un borseggiatore che “alleggerisce” la gente del portafogli, oppure più semplicemente ad una persona povera, con le tasche vuote e quindi “leggere”. Papponi, rapinatori, sequestratori, biscazzieri, allibratori, ladri d’appartamenti, truffatori, spacciatori, strozzini, contrabbandieri, ricettatori; si trattava di piccoli criminali comuni, disorganizzati e spesso in conflitto tra loro.
Ma come nacque la Ligera? In seguito all’inurbamento e all’emarginazione del proletariato agricolo del secondo dopoguerra, molti contadini si trovarono costretti ad emigrare nella grande città, come racconta Celentano nel celebre pezzo “Il Ragazzo della via Gluck”. Sbandati, spaesati e mangiati dalla metropoli, molti giovani cercarono quindi nell’illegalità una nuova forma di sostentamento, pur rimanendo ancorati a determinati valori condivisi.
Gli affiliati erano spesso disoccupati che ricorrevano al crimine per sopravvivere oppure artigiani che cercavano di arrotondare, e non si consideravano dei criminali ma piuttosto dei banditi. Seguivano un codice e cercavano per quanto possibile di non fare del male a nessuno. Sono proprio questi valori, insieme alla pressoché totale assenza di legami con le potenze del crimine organizzato italiano, la caratteristica fondamentale della Ligera.
Questo evitare di ricorrere alla violenza, unito al fatto che i banditi e i poliziotti provenissero dallo stesso contesto sociale, genera cosi un grande ma inconfessato rispetto reciproco tra Ligera e polizia.
«Fino a quando la malavita locale si è mantenuta in certi ambiti, come qualità e caratteristiche, il rapporto con le forze di polizia è stato dei più corretti,» ha ricordato l’ispettore di polizia A.P. in un’intervista contenuta in Malamilano, un documentario sulla ligera. «Era tacitamente escluso che ci fosse della violenza gratuita, e quindi questo determinava un rispetto reciproco.»
Alcuni criminali divennero in seguito banditi celebri. Nomi come Vallanzasca, Turatello, Luciano Lutring, Ugo Ciappina, sono solo alcuni di quelli di cui ancora oggi, in alcune osterie di periferia, si sente qualche anziano ricordarne le gesta. E poi ancora il Paesanino Carlo Bollina, Gino lo Zoppo (al secolo Luigi Rossetti) e tantissimi altri.
Possiamo dividere in due grandi fasi la storia della ligera milanese: una prima parte dal dopoguerra all’inizio degli anni Sessanta, e una seconda parte che si chiude dopo il declino di Epaminonda il Tebano, già colluso con le mafie meridionali. Nel dopoguerra, il sottobosco criminale milanese fino a quel momento dedito a piccoli furti e rapine non violente, cominciò pian piano ad aggregarsi e organizzarsi. Nacquero le prime bande, comparirono le prime armi e anche gli obiettivi si fecero più ambiziosi. Si incominciò a percepire che all’ombra della Madonnina il clima stava cambiando. Si intravedono sguardi duri tra gli avventori dei bar e delle locande, si iniziano a sentire le sirene delle volanti della polizia fin oltre la mezzanotte, le notizie iniziano a girare di locale in locale.
Le periferie divennero il centro di controllo dello smercio di armi, droga, donne e soldi. Erano (e sono) i soldi a fare girare il mondo e, paradossalmente giravano più soldi nelle periferie malfamate che sotto la Galleria Vittorio Emanuele. Ed è proprio nei quartieri popolari di Milano, dove i banditi erano considerati quasi degli eroi. Un radicamento che si espresse in una grande vicinanza agli ambienti della cultura “popolare” di Milano, dai teatri ai piano bar notturni dove si esibivano giovani cantautori, che sarebbero diventati poi i cantori della mala. Parliamo di gruppi come I Gufi, artisti come Nanni Svampa e Didi Martinaz.
A riprova di questa commistione tra malavita e musica popolare ci sono ancora oggi le numerose canzoni popolari dedicate alla ligera, tra cui la più celebre è senza dubbio “Porta Romana Bella”, cui versi «E sette e sette e sette fanno ventuno / arriva la volante e non c’è nessuno» si riferivano alla banda del boss dell’Isola Garibaldi Ezio Barbieri, la stessa zona che oggi è stata riempita di grattacieli e venduta a un fondo qatariota e che nel dopoguerra era un quartiere popolare molto povero e ancora in parte in macerie per i bombardamenti.
La banda di Barbieri, attiva tra il 1945 e il 1946, girava su una Lancia targata 777 (il numero del centralino della polizia di Milano) e faceva rapine in banca e rapine a mano armata tramite posti di blocco improvvisati.
Alcune azioni erano particolarmente spregiudicate, come la celebre “rapina della donna nuda”, in cui la banda fece entrare in banca una ragazza nuda e mentre lei attirava l’attenzione, i complici svaligiarono l’istituto. Il bottino di tutte queste rapine veniva spesso distribuito tra la gente del quartiere, dove la figura di Barbieri era associata a quella di Robin Hood e il bandito era protetto da un muro di omertà degli abitanti del quartiere, che ben volentieri celavano alle forze dell’ordine la sua identità e quella dei suoi complici.
Dopo il suo arresto avvenuto a Pero il 26 febbraio del 1946 a seguito di un violento scontro a fuoco, dove venne ucciso l’amico e complice Sandro Bezzi, Barbieri viene subito incarcerato e detenuto a San Vittore. Condannato a 30 anni di carcere, solo nel 1971 iniziò una nuova vita a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, da uomo libero, come commerciante di vini e abbigliamento; l’ex bandito visse in Sicilia fino alla scomparsa avvenuta nel 2018, all’età di 95 anni.
«Mi sono chiesto anch’io tante volte perché sono diventato un bandito. Penso che l’unica ragione sia stata la Milano di allora. Sono diventato un bandito perché vedevo tutte le mattine mia madre alzarsi alle quattro e fare la coda per avere mezzo chilo di pane. C’era una metà della città che viveva sull’altra metà, una prendeva all’altra e l’altra subiva.»
Ezio Barbieri
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