Di Sergio
Abbiamo girato intorno a questo titolo per quasi due anni. Sembra strano, ma tra Dune e il cinema il rapporto è sempre stato travagliato. Infatti, dall’annuncio del film del regista canadese Denis Villeneuve al rilascio del primo trailer l’8 settembre 2020 all’uscita nelle sale, posticipata dal dicembre 2020 al settembre/ottobre 2021, sembra passata un’eternità. Se il primo teaser trailer, caldo e avvolgente sulle note di una cover firmata Hans Zimmer dei Pink Floyd, aveva suscitato la curiosità di milioni di fan, la sua posticipazione a causa del Covid-19 ha suscitato un’attesa quasi spasmodica. Anche quella del sottoscritto (per dovere di cronaca).
Un rapporto travagliato dicevamo: sì, perché c’è sempre qualcosa che si mette in mezzo tra il romanzo di Frank Herbert e la settima arte. Il film del canadese è soltanto il secondo dedicato alla s-fortunata opera dello scrittore americano di Tacoma, di cui un anno fa sarebbe ricorso il centesimo compleanno se solo un’embolia polmonare e un tumore al pancreas non l’avessero stroncato nel 1986. Soltanto il secondo perché il primo a cimentarsi nell’impresa nel 1984, anche lui secondo ad un tentativo più visionario che concreto dell’artista cileno Alejandro Jodorowsky (noto agli addetti ai lavori per la saga a fumetti “La casta dei meta-baroni”), fu il cineasta David Lynch. Esatto, quello di Twin Peaks.
Se il progetto del drammaturgo sudamericano rimase solo una bella idea, un po’ folle dato che avrebbe visto nel cast Orson Welles, Mick Jagger e Salvador Dalì, ma poco concreta, Lynch si trovò (e scontrò) con la mastodontica produzione hollywodiana firmata Dino De Laurentiis. Quello che avrebbe dovuto essere un colossal si rivelò però un fallimento, soprattutto per la critica. Nonostante il film evochi immagini potenti e mobiliti un’estetica immaginaria formidabile come quella di altre fortunate saghe (vedi Star Wars) e sia un classico che non smette di essere visto (anche dal sottoscritto) il film è ormai considerato l’archetipo dei fallimenti cinematografici.
Per quanto lo stesso Herbert, prima della sua morte, abbia affermato di essere stato pienamente soddisfatto della rappresentazione fatta da Lynch del suo universo,la trama del film resta complessa e talvolta oscura (specie per chi non ha letto il romanzo), e questo malgrado gli sforzi del regista, che aveva scritto ben sei bozze diverse prima della sceneggiatura definitiva. Una complessità insita nella storia originale, ma anche dai pesanti tagli che furono operati dalla produzione sulla versione finale della pellicola per contenerne la durata. Spesso le aspettative deludono, ma per un bambino che non ha mai letto i libri e si imbatte per la prima volta nel monologo della Principessa Irulan con uno sfondo stellare, il film è più che sufficiente e basta per rimanere ben impresso nella memoria del cuore. Già di per sé questo dovrebbe bastare a salvare il film di Lynch, almeno per me… ma sul discorso delle aspettative e la realtà ci torneremo più avanti.
Non si può capire questo rapporto travagliato però senza capire il libro e quello del suo autore con le case editrici. Aspettate però, non è la solita retorica alla meglio il libro del film… Chi scrive non crede ci sia una cultura superiore ed una inferiore, spesso libri e film collidono, questo è fuori discussione, ma molto spesso sorgono anche simbiosi perfette a causa delle quali opera e pellicola non potranno mai più essere immaginate altrimenti divise. È il caso della trilogia de Il Signore degli Anelli, o quella di Harry Potter, solo per fare due esempi comuni,dove i film non negano l’opera ma la esaltano alla massima potenza e qualche volta osano migliorarla.
Il problema molto spesso, come in altri contesti, sorge quando l’arte, la creatività e le storie devono piegarsi alle esigenze del mercato, standardizzante e conformista. È stato così per il film del 1984 che ha dovuto scontrarsi con l’esigenza degli anni ottanta, è stato così per il libro del 1965 che ha dovuto scontrarsi con l’esigenza degli anni sessanta… il problema non è chi fa, ma chi vende. È lapalissiano, ma in questo caso non guasta mai ripeterselo. Perché questo travaglio? Perché Dune nella sua complessità non è la storia di fantascienza tipica dell’epoca in cui vive Herbert, a cavallo della seconda guerra mondiale e la prima guerra fredda. È fuori dal tempo, come spesso accade alle opere che poi diventeranno più influenti. Guardiamoci un attimo intorno dopo essere scesi dalla DeLorean di Doc. Brown.
Siamo negli Stati Uniti a cavallo degli anni cinquanta e sessanta: c’è la guerra fredda e il terrore rosso, c’è il trionfo del consumismo e il grande boom economico, c’è la guerra in Corea e poi in Vietnam, c’è soprattutto la paura dell’atomica e l’avvento delle macchine in ogni aspetto della vita, dall’industria alla scienza… è l’epoca pionieristica dell’informatica. La fantascienza è in ascesa grazie alla corsa allo spazio ma soprattutto grazie alle sue storie: alieni invasori, robot-killer, raggi laser, astronavi velocissime e supereroi buoni alla Flash Gordon. È l’epoca d’oro dei grandi numi del genere fantascientifico come Isaac Asimov, Philip K. Dick, Arthur C. Clarke, Robert A. Heinlein e anche del nostro Ray Bradbury. La science-fiction dal romanzo al fumetto, dalla tv al cinema, è la pepita d’oro dell’editoria dopo anni passati nella nicchia in cui l’avevano rinchiusa i critici letterari benpensanti e politicamente impegnati. Insomma, tutto questo excursus per dire che il mercato è saturo e vuole la tipica storia degli uomini contro le macchine. Sebbene gli autori sopracitati vadano molto oltre questo, arrivando spesso a profetizzare tempi ben lungi dal benessere di quei anni e dal trionfo della società borghese, la pista che seguono è su questo filone: molta azione, molti robot, molti alieni.
Pensate, in questo clima arriva Frank Herbert con un tomo di quasi seicento pagine scritte come un flusso di pensieri, senza che in una sola di esse appaia un alieno o un robot. Di più, arriva con una storia che parla di come gli uomini in un futuro molto lontano (ma passato rispetto al tempo del racconto) abbiano combattuto un vero e proprio jihad contro le intelligenze artificiali. Insomma una storia senza robot, perché questi sono stati tutti distrutti in una rivolta fanatica che ha posto la centralità della mente umana su quella artificiale: «Non costruirai una macchina a somiglianza della mente di un uomo», recita il personaggio della storia citando gli insegnamenti tratti da uno dei molti pseudobiblion che fanno da corollario e supporto dogmatico alla trama principale.
Di più, arriva con una storia che seppur ambientata a diecimila anni di distanza dalla nostra epoca è al limite del dramma feudale, dove complotti, onore e tradimento fanno da sfondo ad una società medievale che si regge sulla figura semi-divina dell’Imperatore.
Di più, arriva con una storia in cui non ci sono razze aliene che vogliono distruggere la terra, ma solo uomini che abitano mondi diversi, che hanno dimenticato la terra, in cui le facoltà mentali sono state ampliate, dove non ci sono astronavi veloci come la luce ma flotte spostate da deformi navigatori grazie alla sostanza psicotropa e psicoattiva chiamata spezia. Una droga sulla quale si regge l’intera economia dell’universo, la quale può essere estratta e raffinata su un unico pianeta: Arrakis, meglio noto come Dune, un pianeta deserto sulla quale la vita animale e vegetale è praticamente nulla, dove tribù di uomini chiamati Fremen devono riciclare perfino il loro sudore pur di avere acqua da bere.
Di più, una tematica ecologica al di fuori del classico schema precotto dell’uomo contro la natura e una tematica filosofica che parte dallo stoicismo, tocca il sovra-umanismo nietzschiano per approdare all’ascesi guerriera di Evola. Il tutto, per non farsi mancar nulla, immerso in un’atmosfera mistica e profondamente religiosa in cui scienza e magia sembrano confondersi, in cui sapienza e tecnologia sono facce della stessa medaglia, in cui ordini segreti, potenti organizzazioni e profeti scalzi si muovono tra le stelle come i personaggi di un’antica saga scaldica.
Come avrete ben capito, non è esattamente la storia che milioni di quattordicenni vogliono leggere sulle riviste di science fiction degli anni sessanta e nemmeno la storia adatta all’epoca del trionfo della ragione. E proprio da questa la difficoltà in cui Herbert si imbatterà fin dai primi capitoli della sua saga che nascerà, la medesima difficoltà della trasposizione cinematografica: gli anni ottanta sono gli anni di Star Wars, Alien, Terminator e Blade Runner, chi vorrebbe vedere al cinema una storia che sembra uscita dal Corano?
In ogni caso si sa, il tempo è sempre galantuomo. Herbert nonostante i primi, molti rifiuti, riuscirà a pubblicare la sua storia sulla rivista Analog, in otto parti dal 1963 al 1965, poi finalmente fu la casa editrice Chilton Book Company che si occupava fino ad allora di manualistica per motori a decidere di tuffarsi nel genere proprio con il manoscritto riunito in un singolo libro, che uscirà con il titolo di Dune nel 1965. È una storia diversa, profondamente riflessiva, che si schiude all’azione solo nei capitoli finali, fuori dai canoni fino ad allora tracciati. Ma da quel momento la fantascienza non sarà mai più la stessa.
L’autore (nemmeno laureato, proprio come Ray Bradbury) vince nello stesso anno, tra l’altro l’unico ad averlo mai fatto, il Premio Hugo e il Premio Nebula per il miglior romanzo di fantascienza. Tutto il genere viene rivoluzionato, schiudendo alla luce quel filone narrativo e cinematografico che unisce l’epica e la fantascienza e che solo recentemente è stato riscoperto dal nostro mondo sotto la parola-concetto di Archeofuturismo.
È stato proprio George Lucas, il creatore della saga cinematografica per antonomasia ad affermare che «Senza Dune, guerre stellari non sarebbe mai esistito», Stephen King lo ha definito come «il meglio. Oltre ogni genere letterario e ogni epoca», perfino un mostro sacro come Asimov lo definirà come il «puro piacere dell’invenzione e della narrazione ad altissimo livello». Dal libro si ispirerà una generazione di registi che hanno fatto la storia del cinema come Steven Spielberg e James Cameron.
Proprio quest’ultimo dirà l’unica cosa che ad oggi, dopo il 16 settembre 2021, può essere confutata rispetto all’opera di Frank Herbert: «Un mondo che nessuno ha ancora saputo ricreare con tale perfezione». Scusaci James, adesso è arrivato. Lì dove aspettative e realtà per una volta si incontrano, c’è il nuovo film di Villeneuve. E se questa data ha segnato il ritorno sul grande schermo per i personaggi nati dalla penna di Frank Herbert, ha anche segnato il ritorno in grande stile di un intero genere ultimamente annacquato, diluito, svilito tra il politicamente corretto e le necessità del merchandising. Infine ha segnato il nostro ritorno al cinema dopo quasi due anni di restrizioni, che seppur fastidiose e dure ci hanno permesso di meglio osservare la società in cui viviamo ricordandoci ciò che scrisse Herbert nelle sue appendici “L’uomo non può essere sostituito”.
«Gli uomini volsero lo sguardo ai propri Dèi e ai loro rituali e videro che entrambi erano inquinati dalla più terribile delle somme algebriche: paura più ambizione».
(Continua nella seconda parte…)
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