Di Andrea
Passata questa tornata elettorale amministrativa, che interessava alcune delle città più importanti della penisola (Milano, Roma, Torino, Napoli), è arrivata l’ora di fare qualche ragionamento a caldo e abbiamo avuto ancora una volta la riprova di quanto tutti i vari personaggi della politica mainstream abbiano stancato la maggioranza della popolazione e soprattutto i giovani.
I dati parlano chiaro: a Milano l’affluenza è stata del 47,72% degli avanti diritto (la più bassa di sempre per la città), a Roma ha votato il 48,83%, a Torino il 48,06% (di nuovo la più bassa di sempre per la città) e a Napoli il 46,10%.
In sostanza una vittoria schiacciante dell’astensionismo tout court.
La politica ha finalmente cominciato a raccogliere i frutti di due anni di gestione sociale e sanitaria disastrosa, due anni di restrizioni, lockdown e coprifuoco che hanno instillato una preoccupante rassegnazione e accondiscendenza da parte di gran parte della popolazione.
Tralasciando poi la pochezza delle figure politiche di riferimento, assolutamente non all’altezza del ruolo sia per capacità sia per presenza estetica, i vari partiti tradizionali dimostrano di non aver saputo immedesimarsi (mai ci sono riusciti e mai ci riusciranno) nella realtà quotidiana, rimanendo come sempre nel loro Olimpo e scendendovi soltanto durante la campagna elettorale.
Questo comportamento ormai non ci sbalordisce più, ma anno dopo anno la situazione è sempre degradante, ormai i vari politicanti non compiono neanche più la fatica di mascherare il mero interesse legato al solo raggiungimento della carica pubblica. Dimenticando completamente la «pólis – téchnē», ovvero l’arte della città.
I giovani, come già analizzato in molti articoli, sono stati una delle categorie più colpite e colpevolizzate in questo periodo di pandemia. Già demonizzati in partenza dalla situazione e additati, in seguito, come untori sono stati infine abbandonati a loro stessi.
Il problema principale è la progressiva trasformazione della politica in strumento soggiogato ad interessi economici superiori e il relativo annullamento della sua forma più idealista e volontaristica. Quest’ultima sicuramente una forma se vogliamo più giovanile, il cui abbandono comporta necessariamente un allontanamento giovanile alla luce del quale possiamo sfatare il famoso mito di una generazione assopita e menefreghista come afferma invece qualche sedicente personaggio decrepito.
Risulta tragicomico poi, come sia proprio questa politica, che da un lato allontana i veri giovani, a cercare in tutti i modi delle vie per togliersi di dosso il velo della vecchiaia, fingendo così di essere inclusiva e trovandosi il “giusto alibi” per poter accusare la nuova generazione come detto poco sopra. Allora via con l’economia green, con i monopattini e le bici elettriche, le camice sgargianti senza cravatta con le maniche tirate su e chi più ne ha più ne metta.
Questa condizione fa in modo che non ci sia la possibilità di un’azione propositiva ma, al contrario, mette nella condizione di subire questi flussi ponendosi in uno stato di debolezza (esattamente all’antitesi della forza volontaria che è incarnata dallo spirito giovanile). Un circolo vizioso che non lascia vie di fuga.
La vera essenza della politica, invece, è di per sé legata a quella della giovinezza, la quale è a sua volta strettamente legata all’azione di imporre la propria essenza nella storia più che al mero concetto anagrafico.
Essere giovani è uno stato in continuo divenire che non può fossilizzarsi e diventare immobile proprio com’è ora invece la politica e di conseguenza i politici che la rappresentano. La vera rivoluzione è innanzitutto interiore, contro il vecchio che è dentro ognuno di noi, la giovinezza non è un periodo temporale della vita ma una condizione eterna a cui tendere.
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