di Michele

Tutti conoscono Alessandro Barbero, tendenzialmente anche quelli a cui la storia procura grossi sbadigli, ma venendo a noi, recentemente hanno fatto scalpore alcune sue dichiarazioni riguardanti le foibe rilasciate al Fatto Quotidiano. Egli infatti si è inserito all’interno delle polemiche scaturite dal Rettore dell’Università per Stranieri di Siena, Tomaso Montanari, che aveva definito il Giorno del Ricordo «il più clamoroso successo di falsificazione storica» e un modo «di riscrivere la storia da parte del fascismo», ovviamente dichiarandosi in accordo.

Se avessimo una passione per le classificazioni potremmo dire che il nostro storico però non è un negazionista delle Foibe, quanto piuttosto un giustificazionista. Infatti, ne riconosce la storicità: «la fuga e le stragi degli italiani hanno accompagnato l’avanzata dei partigiani jugaslavi sul confine orientale, e questo è un fatto».

Ma da qui il treno deraglia. La colpevolezza dei titini in queste stragi e la loro portata non lo preoccupano per nulla. Tutto viene appiattito su di uno scontro fra la civiltà e la barbarie” per cui l’appartenenza ad una parte o all’altra giustifica qualsiasi eccesso verso chi sta dalla parte sbagliata. Ciò introduce un elemento morale nella storia che le dovrebbe essere estraneo.

Come se ciò non bastasse, si cade poi nella solita retorica degli italiani che in qualche modo si sarebbero meritati le foibe, perché «avevano invaso e occupato la Jugoslavia e compiuto atrocità sul suo territorio». Tesi facilmente smontabile per diversi motivi e che omette particolari decisivi.

Per dirne uno, la Jugoslavia era un alleato dell’Asse e venne invasa in risposta ad un colpo di stato che ne aveva rovesciato il governo legittimo. La violenza titina ebbe degli evidenti motivi ideologici ed è impossibile ridurla ad una risposta alle azioni degli italiani. Oltretutto, se si vuole tenere conto della situazione complessiva del confine orientale, bisogna citare le politiche vessatorie e di slavizzazione che l’Impero Austro-Ungarico mise in atto fino alla fine della prima guerra mondiale o gli atti terroristici perpetrati contro gli italiani dal primo dopoguerra.

Tralasciando poi queste argomentazioni prettamente storiche, è interessante vedere quali sono le conclusioni politiche. Barbero mette sullo stesso piano la falsificazione della storia e il suo uso politico: «scegliere una specifica atrocità per dichiarare che quella, e non altre, va ricordata e insegnata ai giovani è una scelta politica, e falsifica la realtà in quanto isola una vicenda dal suo contesto».

Ma seguendo questo ragionamento si dovrebbero vietare anche ricorrenze care a una certa sinistra, come quella del 25 aprile. Con ogni probabilità quindi non disturba che il Giorno del Ricordo possa avere una valenza politica, piuttosto ciò che disturba è quale valenza politica possa avere il Giorno del Ricordo.

È proprio lui stesso a dircelo. Di quella «falsificazione della storia da parte neofascista, di cui l’istituzione della Giornata del Ricordo costituisce senza dubbio una tappa» ciò che è intollerabile quindi è la possibilità di mettere sullo stesso piano le due parti del conflitto, vincitori e vittime.

Qui si annulla quella reciprocità che è alla base di una concezione sana della guerra e della politica. Se la distinzione essenziale della dimensione politica e di quella bellica – che poi è la stessa – è la distinzione amico/nemico, questa presuppone un riconoscimento del nemico in quanto legittimato ad essere tale. Come ci ricorda Schmitt: «nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere». A rompere questo schema è l’assolutizzazione di una data morale, che disconosce il nemico in quanto tale e lo rappresenta solo come male assoluto.

In tutto questo c’è poi una circolarità abbastanza imbarazzante. Nella narrazione infatti, nazismo o fascismo sono sbagliati perché compiono violenze, mentre tutti gli altri compiono violenze perché nazismo o fascismo sono sbagliati. La discriminante fra i due gruppi diviene un atto di fede. Non c’è una vera e propria leva ideologica che riesca a separare la parte giusta da quella sbagliata. Questo atto di fede si chiama antifascismo. Tutto questo scade nel ridicolo, quando infine parla delle famiglie come vettore di un certo nostalgismo per il ventennio. Quasi che chi abbia determinate posizioni politiche debba essere semplicemente rieducato, con quanto di dispotico e oscuro questo termine porta con sé.

Arrivati a questo punto, dobbiamo riconoscergli però almeno il pregio di aver speso alcune parole contro le derive liberticide del sistema in cui viviamo, affermando che «non sono solo le destre ad aver creato un mondo in cui si reclamano le scuse, le dimissioni e licenziamenti non per qualcosa che si è fatto, ma per qualcosa che si è detto».

Una presa di posizione per nulla scontata di questi tempi.