Di Luca
Ne vengono sfornati a migliaia ogni giorno, occupano almeno i 3/4 dei social e non sono post sul coronavirus… mi riferisco infatti ai MEME.
Non sono nulla di più di immagini virali che vengono associate ad una scritta comica, ed oggi rappresentano la gran parte di ciò che circola nella home dei social network.
Il fenomeno si è diffuso così tanto da diventare una nuova forma di comicità, suddivisa in varie “categorie” con diverse caratteristiche, formati e dettami; fare meme non richiede solo senso dell’umorismo ma necessita anche di creatività e capacità grafiche tanto che a mio avviso potremmo quasi arrivare a definirla una forma d’arte tutta sua.
Il termine venne coniato da Richard Dawkins nel 1976 nel libro “Il gene egoista” come tentativo di spiegare il modo in cui le informazioni culturali si diffondono. In termini più specifici, un meme sarebbe “un’unità auto-propagantesi” di evoluzione culturale, simile a ciò che il gene è per la genetica, quindi un elemento di una cultura o civiltà trasmesso da mezzi non genetici, soprattutto per imitazione.
Il primo “meme” della storia si trova fra le pagine del giornale americano “Wisconsin Octopus” del 1919, si tratta di una vignetta comica di quelle del tipo aspettativa VS realtà, benché la struttura sia comune anche oggi non possiamo definirlo del tutto tale poiché il fenomeno richiede che il contenuto si diffonda fra molte persone in maniera più o meno rapida.
Un meme può essere un’azione, un’idea, una citazione, un’immagine o anche un video che si diffonde in maniera virale, grazie anche ai moderni mezzi di comunicazione, nell’odierna cultura di massa fino a diventare famoso.
Essi ricoprono un ruolo più centrale di quanto si pensi nella società, specialmente quella del XXI secolo, proprio perché non si tratta di semplici immagini con le relative scritte, di frasi o gag comiche che suscitano una risata ma diventano veri e propri tormentoni e permangono sulla bocca di tutti anche per moltissimo tempo.
Paradossalmente può funzionare meglio di qualunque macchina della propaganda mai strutturata perché non servono stampanti e manifesti né tantomeno annunci radio o megafoni perché risuona nella voce delle persone, saranno le persone stesse ad inoltrarlo e a dargli visibilità.
Tutto bello sì, ma non è così facile. Veicolare qualcosa tramite un meme richiede uno stile ed un’inventiva particolare affinché questo si diffonda. Anche se a volte, va detto, è sufficiente un talento naturale: basti pensare al caro Matteo Salvini che ci ha deliziato con perle quali «Scusi, ma lei spaccia?» o «Ah non posso?!».
Tralasciando la credibilità politica del suddetto tali citazioni con le relative immagini circolano tutt’ora sui social e per quanto vengano utilizzati per screditarlo dagli oppositori gli regalano una visibilità senza precedenti specialmente fra i giovani anche quelli avversi alla politica, sfido che siano altrettanto conosciuti un Letta o uno Zingaretti.
Il meme è molto più di una semplice immagine simpatica, può essere provocatorio, irriverente, inopportuno o satirico, spesso infatti vengono utilizzati per sfottere o attaccare altri e sono proprio questi quelli che colpiscono maggiormente chi li guarda.
Parliamoci chiaro non si può pensare che utilizzando un certo stile si possa diffondere qualcosa di noioso o pedante e farlo anche piacere.
È proprio questa caratteristica che ci piace ed è per questo che in un certo senso ci appartengono, al contrario di chi magari vive la politica in modo più istituzionale. Soprattutto perché spesso può essere un sonoro calcio dove non batte il sole al “politically correct” e non può essere concepito dal tipico buonista sempre attento a non offendere nessuno e a non andare contro ai dogmi imposti del “Non si può dire”.
Il più grande schiaffo mai sferrato contro i benpensanti in questo contesto è stato sicuramente quando iniziò a circolare “Pepe the frog”, nato nel 2015 sul sito web 4Chan. Si trattava di una rana umanoide tratta da un cartone animato inglese la quale iniziò ad apparire nelle vesti di soldato delle SS, di membro del KKK ma anche di miliziano Jihadista o di malvagio ebreo e questo mandò su tutte le furie la “sinistra” americana scatenando una bufera contro queste immagini, fra le isteriche grida di chi la riteneva istigazione all’odio ed i piagnistei per l’appropriazione indebita del personaggio.
Come se non bastasse crearono una divinità chiamata “Kek” e una sua terra promessa chiamata “Kekistan”, dove si sarebbero lì raccolti tutti i combattenti per il politicamente scorretto.
La repubblica del Kekistan ha persino un suo inno ed una sua bandiera, la quale è incredibilmente (e non certo casualmente) simile alla Reichskriegsflagge della Germania Nazionalsocialista.
Il tutto ovviamente coperto da un velo di ironia, ironia che però non è stata colta da certi personaggi a noi tristemente noti i quali nel vedere tale bandiera sventolata da un gruppo di ragazzi durante un comizio di Salvini nel 2018 non hanno saputo controllarsi ed hanno dedicato diversi articoloni sui “neo-nazi” americani presenti al comizio Leghista.
“Quattro “K” a disegnare una specie di svastica. Ha sfilato e poi era in bella mostra in piazza Duomo in mezzo alle bandiere leghiste. Con gli organizzatori consenzienti”
– La Repubblica, Paolo Berizzi
Una delle più grandi figuracce dei giornalisti della sinistra italiana, messi in ridicolo da qualche ragazzino con una bandiera di uno stato inventato, vatti a fidare degli esperti dell’informazione.
C’è comunque un limite a tutto, si è creato attorno al fenomeno un vero e proprio mondo e non bisogna dare troppo peso a certe cose sennò si rischia di passare oltre.
Nessuno dovrebbe aspirare a diventare un nerd del meme, uno “studioso” che pasa le giornate a fare e criticare vignette comiche, semplicemente serve capire l’importanza che queste ricoprono nell’immaginario comune per riuscire a sfruttare al meglio le loro caratteristiche e riuscire a lanciare anche messaggi più importanti.
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