di Moro

Una nuova formula di dominio recita: sii felice.” –  Un’affermazione tanto semplice quanto universale che oramai si può applicare agli ambiti più variegati. Siamo infatti sbarcati in una nuova era, dove la tecnologia è oramai in grado di soddisfare fette sempre più ampie dei desideri umani, inclusa l’attenuazione del grande nemico di questo nuovo benessere, il dolore. È il punto da cui inizia la sua analisi un astro della filosofia contemporanea, Byung-Chul Han, filosofo sudcoreano e docente presso l’Università delle Arti di Berlino, nonché profondo conoscitore della filosofia germanica.

Nell’aprire il suo libro, la Società senza Dolore, il filosofo ci riporta presso una società moderna ormai diventata totalmente algofobica, ovvero spaventata e repellente a tutto ciò che fa male, e che quindi minaccia il benessere della persona. La sofferenza viene quindi bandita dall’individuo, il quale si vede spronato a combatterla. Nella società contemporanea questo viene quindi trasposto dentro l’individuo come un qualcosa da trattare con ogni mezzo, un problema che richiede l’intervento di professionisti della terapia del dolore. La sofferenza diventa persino un problema medico, sdoganando medicinali e psicofarmaci anche per persone sane.

Il dolore rispecchia i fallimenti socioeconomici”, ci spiega Byung-Chul Han, “che s’inscrivono sia nell’ambito psichico che in quello economico”. Naturalmente non è tollerabile questo in una società del poter fare, dove infatti “gli analgesici, prescritti in massa, coprono le circostanze sociali che conducono al dolore”. In questo modo, in un mondo ormai privo di quegli aspetti culturali che rendevano significativa la vita, L‘accettabilità sociale diventa fondamentale al fine della sopravvivenza, oramai divenuta una prerogativa irrinunciabile. “Tutte le energie vitali vengono adoperate per allungare la vita”, da qui il terrore per la morte e la sofferenza.

Un contesto del genere non può che generare un profondo immobilismo sociale. Come è risaputo, solo un profondo dolore spinge una rivoluzione, ma dal momento che qualcosa inizia a non girare nei meccanismi politici ed economici e comunque strumenti palliativi inducono il popolo a sentirsi soddisfatto, è scontato come dal basso non possano mostrarsi eccessive risposte a dei fenomeni anche profondamente lesive nei confronti delle libertà individuali. Come ci spiega l’autore:

“La comunicazione totale e la sorveglianza totale, il denudamento pornografico e la sorveglianza panottica finiscono per collimare. La libertà e la sorveglianza diventano indistinguibili. Il dispositivo neoliberista della felicità ci distrae dai rapporti di dominio vigenti costringendoci all’introspezione.”

Nel mondo si possono già osservare diversi fenomeni di questo tipo. La pandemia da Covid-19 ha recluso decine di milioni di italiani in casa per mesi, e tutt’oggi politiche liberticide come quella del Green Pass impediscono un ritorno alla normalità. E seppure una cattiva gestione ci abbiano mandato sul lastrico, perché lamentarsi? Ieri telefoni e televisori riempivano le nostre vite, oggi un vaccino ci promette di stare meglio non solo prevenendo una malattia, ma anche curandoci nel nostro bigotto intimo. L’autore continua spiegandoci che il dispositivo neoliberista:

Fa sì che ognuno si tenga occupato non solo con sé stesso, con la propria psiche, invece di indagare criticamente le questioni sociali. La sofferenza, della quale sarebbe responsabile la società, viene privatizzata e psicologizzata. Le condizioni da migliorare non sono sociali, bensì psichiche.”

Il mondo moderno si mostra sempre di più come la migliore delle alternative possibili, come un sistema che offre milioni di prodotti invitanti e promette di esaudire ogni desiderio. In questo contesto l’ottimismo diventa un valore e osservarlo diventa una prerogativa sociale. L’individuo, se solo lo desidera, può schiacciare le sue pene nel baratro più nascosto della sua anima. Tutto diventa lecito purché viga sempre la serenità. La citazione si conclude spiegandoci che:

“Lo slancio verso un’ottimizzazione dell’anima, che in realtà costringe a un adeguamento ai rapporti di dominio, vela i malcostumi sociali. Così la psicologia positiva sigilla la fine della rivoluzione. A salire sul palco non sono i rivoluzionari, bensì i trainer motivazionali che impediscono il diffondersi del malumore o anche della rabbia.”

Uno scenario che ricorda un altro capolavoro, ovvero Farenheit 451 di Ray Bradbury, una distopia dove la felicità diventa dogma e l’assenza di tensione una prerogativa totale. Una società che abolisce il libero pensiero arrivando a bruciare i libri, ovvero il vaso di pandora di ogni litigio. L’obiettivo è la stabilità e lo status quo e il mezzo per ottenere questa non può che essere l’annullare ogni conflitto. Tuttavia, dove si genera questo se non nel pensare, nel percepire che qualcosa non va? La post-modernità, così come l’America di Farenheit 451, altro non fa che ridurre le opportunità di pensare attraverso la velocità. Tutto diviene più rapido e le agende si riempiono, così il tempo stesso per pensare diventa sempre di meno. I libri che bruciano si traducono nella modernità in una sostanziale scomparsa del senso critico.

Il capolavoro letterario di Bradbury, passando per l’analisi di Byung-Chul Han, si rileva pari pari nella società moderna, quindi. Il recente fenomeno della cancel culture altro non vuole che eliminare qualsiasi senso di conflitto passando ad una forma più tipicamente bradburiana di censura. Questo intento viene nascosto dal pretesto di eliminare ogni discriminazione, ma l’avanzare della censura abbinata ad un opprimente senso ideologico tipico della modernità non potranno che ricreare un tipo di società pericolosamente indirizzata verso la distopia. Già se ne vedono i preludi anche col DDL Zan, una legge che preserva la libertà di espressione purché questa non crei discriminazioni. Affermazione che dice tutto e niente, e che mette nelle mani di un giudice l’arbitrio di decidere chi può proferire parola.

Questa cultura della censura, da parte sua, altro non è che un’evoluzione di quella che Nietzsche definiva come una morale del risentimento, un’ideologia levigatrice e quindi avversa a quanto si pone come aristocratico. Nelle parole di Byung-Chul Han, quasi parafrasando la Genealogia della Morale nietzschana:

“La megalotimia, ovvero lo slancio sfociante nell’eroico e verso ciò che è superiore, per la fama e per l’onore, sia essenziale agli occhi dell’essere umano. Essa costituisce anche la forza trainante della storia. Nella democrazia liberale la megalotimia viene però indebolita da una crescente isotimia, cioè uno slancio verso i pari diritti, sia da un accresciuto desiderio di comodità e sicurezza. In questo modo la democrazia liberale favorirebbe la nascita dell’Ultimo Uomo

Torneremo dopo sul significato di “Ultimo Uomo”, anche questo un canone di pura derivazione nietzschana. La concezione del dolore di entrambi i filosofi ricopre una parte importante della loro visione del mondo. Nietzsche la vedeva come una prerogativa aristocratica, come un qualcosa che separa gli esseri umani alimentando il Pathos della distanza di quell’individuo forte e sufficientemente capace di affrontare la vita in maniera tragica, quindi continuando inesorabilmente sul suo cammino e ridendo delle avversità, anche se per lui il destino dovesse proporre atroci sofferenze e morte.

Byung-Chul Han ne “la Società senza Dolore” pone una visione simile, ma che si concentra molto di più sul lato creatore di un qualcosa che “non è una sensazione soggettiva che rimanda ad una mancanza, bensì un concepimento, anzi una concezione dell’essere”. Per il filosofo sudcoreano “il dolore è un dono”. Esso “regge l’esistenza umana” e non si pone come uno stato temporaneo ed eliminabile, ma costituisce un’autentica forza di gravità dell’esistenza umana.

A livello individuale e sociale esso si presenta come una forza dialettica, ovvero come un’eterna contraddizione che fa evolvere l’essere. “Senza dolore non c’è neanche rivoluzione né rinnovamento radicale, non c’è storia”. Egli ci spiega anche come “lo spirito giunge solo mediante il dolore a nuove scoperte, a una forma più elevata di conoscenza e coscienza”. Il dolore disgrega e attraverso questa frattura rinnova l’individuo, in quanto, parafrasando le parole di Hegel, l’Essere evolve solo dopo essere uscito da sé stesso ed esserci rientrato.

“Il dolore è vita”, direbbe Byung-Chul Han, quasi come se l’autore avesse una sorta di feticismo per il dolore, tuttavia che dolore e conflitto provochino elevazione e un senso di evoluzione è quasi tautologico. Il palestrato per costruire il suo muscolo lo stressa, lo rompe, sta a questo poi ricostruirsi più vigoroso. Allo stesso modo, il dolore si presenta come un fenomeno profondamente darwiniano, che premia chi riesce a contenerlo, a sublimarlo e a trasformarlo in qualcosa di dinamico. Byung-Chul Han altro non fa che mettere in luce questo aspetto, avvalendosi di una ricerca filosofica ampia e deliziosamente teutonica.

In alternativa al pensiero del filosofo sudcoreano potremmo giustificare un modello che invece si pone come cura del dolore. Se la sofferenza non è necessaria, se non è necessario conviverci, dialogarci e se non serve sopportarlo, perché allora dovremmo accettare un sentimento così negativo? Potremmo piuttosto anestetizzare il nostro animo, ricorrendo da un lato a un consumismo che affoga al dolore, o ad una religiosità che offre speranze ultraterrene, o ancora piegando il nostro animo ad una forza e ad una perfezione solo apparente, che altro non fa che nascondere il nostro dolore, mentre questo cova e ci distrugge mentre la sua utilità sarebbe stata solo quella di renderci più consapevoli.

Il filosofo ci ricorda unicamente che il dolore è parte della vita, una parte che spinge ad evolvere noi e la storia. Nascondere, esaltare vittimisticamente e sopprimere farmaceuticamente la propria sofferenza sono ugualmente segni di debolezza dell’animo umano. Il prima menzionato “Ultimo Uomo” altro non fa che questo e puntualmente arriva a barattare ciò che è e la sua stessa libertà purché gli venga garantito il benessere. Nelle parole dell’autore:

“L’Ultimo Uomo non è un promotore della democrazia liberale. Per lui la confortevolezza possiede un valore superiore rispetto alla libertà. La psicopolitica digitale che contrasta con l’idea liberale di libertà non disturba il suo benessere.

Una società dove l’assenza del dolore è più importante della libertà, o dove le due cose coincidono, altro non è che un’anticipazione delle società dei grandi scrittori distopisti come Bradbury, Orwell e Huxley. Come il Blocco Studentesco sottolineò quando cadde l’obbligo di indossare le mascherine all’aperto: “potete togliervela dalla faccia, ma dovete prima togliervela dalla testa”. Allo stesso modo, questa società palliativa pone le sue sbarre dentro la psiche e non più all’esterno. Nelle parole del filosofo e docente sudcoreano:

“Inoltre, [all’Ultimo Uomo], la sua isteria per la salute fa sì che venga costantemente sorvegliato. Egli costruisce dentro di sé una dittatura interiore, un regime di controllo interiore. Là dove la dittatura interiore incontra la sorveglianza biopolitica, quest’ultima non viene vista come oppressione in quanto avanza nel nome della salute.”

Nietzsche definisce l’Ultimo Uomo come il più disprezzabile degli uomini, come un essere sprovvisto di qualsiasi profondità e Volontà di Potenza, una persona non capace di generare nuove stelle e nuove trasvalutazioni capaci di donare all’umanità nuove prospettive, a seguito dell’evento tragico rilevato nella metaforica morte di Dio. Per Byung-Chul Han questo nuovo essere corrisponde ad un moderno uomo privo di coraggio e di sensibilità, in quell’uomo assuefatto al telefonino, ovvero un orwielliano teleschermo che non può mancare nelle mani del moderno essere umano. Nelle parole dell’autore de La Società senza Dolore: “L’Ultimo Uomo si sente libero nel regime biopolitico. Dominio e libertà tornano a collimare”

Non si pensi però che alla testa di queste grandi dittature sanitarie in senso ampio ci siano necessariamente dei fior fiori di despoti. Il fatto che molti politici europei badino più agli interessi di partito che al benessere del popolo, lasciando che la società cambi in questo senso, mostra in realtà un profondo senso di inadeguatezza. L’autore ci spiega che:

La mancanza di alternative è un analgesico politico. Il centro diffuso sortisce un effetto palliativo. Invece di discutere, di lottare per argomenti migliori, ci si abbandona alle imposizioni del sistema. Si fa così strada una post-democrazia. […] La politica palliativa non ha il coraggio del dolore, quindi perpetua l’uguale

Si sta paradossalmente instaurando quello che la filosofa di origini ebraiche Hannah Arendt definiva come un totalitarismo. La differenza è che all’apice di questo sistema altamente repressivo non si ritrova una casta di burocrati e despoti, bensì una massa informe ed insicura che agisce nel nome delle mode e del benessere. In Farenheit 451 non compaiono in maniera così evidente dittatori, questo perché non servono per instaurare una società repressiva e dogmatica. Quello odierno è piuttosto un totalitarismo democratico dove la massa è sostituita alla gerarchia.

Come nel romanzo di Bradbury, anche nella realtà è la Società Liquida osservata da Baumann a chiedere che si brucino i libri. Nel concreto, la massa insicura e algofobica ama i suoi aguzzini, non gli interessa se viene secondo per secondo studiata da intelligenze artificiali e magnati dei dati mobili, l’importante è che queste rendano la sua vita più agiata e che forniscano una valida distrazione da quel senso di smarrimento e sofferenza. Nelle parole di Byung-Chul Han:

Il subordinato non è nemmeno consapevole della propria subordinazione. Crede di essere libero. Senza alcuna costrizione esterna, si sfrutta volontariamente credendo di realizzarsi. La libertà non viene oppressa, bensì sfruttata. Il Sii Libero crea una costrizione più disastrosa del Sii Obbediente.”

Per tutti questi motivi, quindi, è necessario farsi carico del dolore. Si definisce quella attuale come una società liberale, ma la massa che la compone è sempre più propensa a rinunciare alla propria libertà per la propria felicità. Accettare e motivare il dolore, d’altro canto, offre invece all’individuo la possibilità di divenire più forte e di poter resistere meglio alla tentazione di lasciarsi andare all’unilateralismo della società moderna. “La resistenza richiede grandi sacrifici: il che spiega perché la maggior parte delle persone scelga la costrizione”, direbbe Junger. Un individuo inflaccidito dal benessere non sarà mai abbastanza forte, o motivato, per sopportare il dolore e accetterà senz’altro l’analgesico offerto dalla società consumista.

Una vita senza morte né dolore non è umana, bensì non morta. L’essere umano si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo della vita”. Si chiude con questa frase il libro di Byung-Chul Han. La speranza è che in un mondo di obesi e insicuri possa ancora spuntare chi, motivato da grande resistenza e spirito di ricerca, non si accontenti di una mezza vita fatta di intrattenimento e sicurezze. Ora più che mai serve il colui che cerca descritto nel Siddharta di Hermann Hesse. Serve colui che tende all’assoluto e colui che accetta ogni componente della vita, incluse le passioni, la ricerca, la disciplina e, non di meno, il dolore.