Di Lemmy
Ultimamente si è giustamente sviluppato un grosso dibattito sul caso di Marco Zennaro, che però se si affronta un’analisi più precisa della faccenda risulta essere solo uno dei 2113 italiani detenuti all’estero Italiani abbandonati dallo Stato che si arrende di fronte a stupidi cavilli legali, abbandonandoli così nelle carceri in condizioni pietose, spesso in attesa del pagamento di “cauzione” (leggasi riscatto – n.d.r.).
Più del 35% dei detenuti italiani all’estero sono persone non ancora condannate, in attesa di estradizione o di giudizio. Oltre l’80% si trova (“fortunatamente”) in carceri europee, prime tra tutte quelle tedesche che ne ospitano ben 1.079. Seguono le prigioni spagnole (458), quelle francesi (231), belghe (202), del Regno Unito (192) e della Svizzera (131). Negli Stati Uniti troviamo 91 connazionali detenuti, in Venezuela 66, in Perù 58, in Brasile 54, in Colombia 30. Sono 30 anche quelli presenti nelle carceri australiane, mentre tra Asia e Oceania ne troviamo altri 55.
Ma perché i detenuti vengono trattenuti nel paese dove commettono un reato invece che essere giudicati nel loro paese d’origine?
Pillola di diritto: quando un cittadino italiano si reca all’estero e commette un reato in territorio straniero, sarà assoggettato al sistema giudiziario vigente in quel determinato paese ed eventualmente, dovrà scontare una pena, che potrà essere detentiva o meno. Com’è giusto che sia in tutti i paesi civili. Stato che vai, legge che trovi. Gli enti (in questo caso italiani, ma vale per tutti i paesi del mondo) che si occupano della protezione dei detenuti all’estero sono principalmente le Ambasciate e i Consolati, i quali godono di una serie di poteri da esplicare per garantire che ai detenuti siano riconosciute le minime garanzie per una detenzione degna di essere definita civile.
Questa è la teoria, tuttavia non è possibile affermare sic et simpliciter (così semplicemente – n.d.r.) che ciò corrisponda alla prassi.
Sfortunatamente, in fatto di politica estera, i nostri governi hanno spesso avuto dei comportamenti che con un eufemismo potremmo definire molto accondiscendenti, anche troppo. La tutela da parte delle autorità italiane risulta essere debole, si scontra con le leggi locali vigenti, con gli specifici regimi carcerari, risolvendosi in un nulla di fatto e alimentando quell’impasse in cui versano moltissimi italiani all’estero, basti pensare al lungo travaglio subito ai due Marò in India Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.
Qual è la carta che regola tutti questi complicati giochi di competenze? Trattasi della Convenzione di Vienna sulle Relazioni consolari del 1963, seguita vent’anni dopo da quella di Strasburgo (1983). Questi due documenti sono considerati il quadro normativo di riferimento entro il quale “viene esplicata la protezione, disciplinando nella fattispecie i compiti dei Consolati”. Nonostante ciò, il fatto che non tutti gli stati abbiano siglato l’accordo suggerisce che la tutela internazionale spesso non ha la forza effettiva per imporsi, lasciando dei vuoti di potere che vengono poi sfruttati dalle autorità locali che hanno in custodia i detenuti.
I nostri connazionali detenuti si trovano davanti a situazioni difficili e spesso molto pericolose, che possono andare dai soprusi quotidiani, fino al contrarre gravi malattie a causa delle disumane condizioni carcerarie. Ciò non vuol dire che per gli italiani si debba chiedere un “trattamento di favore” nelle carceri esteri, bensì che per ogni detenuto venga rispettato il minimo sindacale e che venga giudicato in seguito ad un giusto processo, esattamente come previsto dalle costituzioni di tutto il mondo.
Spesso questo non succede, e ciò è dovuto – come anticipato prima – non solo a causa degli accordi internazionali ma soprattutto a causa del peso internazionale dell’Italia all’estero. Oggigiorno, se non in rari casi, in Italia manca un concetto di “solidarietà nazionale”, cosa che al contrario è molto sentita in tanti altri Paesi. Un esempio concreto è, senza andare troppo lontano, quello degli Stati Uniti nella mobilitazione – non solo mediatica – per Amanda Knox, prima condannata per l’omicidio della giovane Meridith Kercher in Italia, e poi liberata per non aver commesso il fatto.
La Farnesina ha messo a punto anche un vademecum per i detenuti all’estero e per i loro familiari, che però risulta nella maggior parte dei casi ben poco utile, in quanto i detenuti si trovano in una condizione particolarmente dura, sia per le difficoltà della lingua a cui si aggiunge una parziale o totale non conoscenza del diritto locale, seguita spesso da un regime carcerario particolarmente violento. Il vademecum spiega, dunque, con precisione cosa la rappresentanza diplomatica può o non può fare in favore del cittadino detenuto illecitamente, lo guida nelle pratiche per la richiesta di estradizione o di grazia.
Basterebbe poco per poter tutelare gli italiani detenuti all’estero, senza costi aggiuntivi per le tasche dello Stato. In prima battuta si potrebbe istituire una lista di interpreti volontari che si mettano al servizio dei concittadini che entrano in contatto con il circuito penale straniero. Oppure istituire liste di legali di riferimento: nei siti di molte ambasciate già si trovano ma, nella maggior parte dei casi, non si riesce a comprendere (né a sapere) quale sia la specializzazione degli avvocati e il livello di affidabilità, in quanto le procedure di accreditamento non sono chiare.
Un altro metodo potrebbe essere quello di stabilire un obbligo per gli uffici in terra straniera di seguire, se richiesti, tutte le udienze e, in generale, i procedimenti penali che riguardano gli Italiani, perché la presenza in tribunale di un funzionario italiano significherebbe l’effettiva presenza dello Stato Italiano, rappresentato da un funzionario legalmente accreditato. Tornare ad essere quindi uno Stato che non lascia i suoi cittadini allo sbando, che non li abbandona nel momento del bisogno. Uno Stato degno del nome che porta, che sappia farsi valere realmente in ambito internazionale. Tornare Potenza, passa anche per queste lotte.
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