di Michele

Ci siamo forse assuefatti ad una visione negativa del futuro, ad una sfiducia generalizzata nella nostra capacità di fare storia, ad una critica bigotta verso le potenzialità della tecnica. Nella battaglia per il futuro, il campo sembra essersi diviso fra un conservatorismo custode di una non meglio specificata natura umana, dei cosiddetti truismi e del buon senso, contro un progressismo che ha fatto della tecnica il moltiplicatore di quelle strana alleanza tra sfruttamento economico e religione dei diritti che è oggi il globalismo.

In questo acquitrino stagnante non è potuta passare inosservata però una tendenza diversa, quella del prometeismo. A gettare il sasso, forse per primo in Italia, è stato Adriano Scianca che su Il Primato Nazionale ha pubblicato due interviste, rispettivamente a Jason Reza Jorjani e a Romain D’Aspremont. Ciò che accomuna questi due autori, per il resto abbastanza diversi fra loro, è l’aver definito prometeismo la propria sfida da destra in favore della tecnica. Un atteggiamento che certamente non è del tutto nuovo, basti pensare a movimenti come il futurismo e la rivoluzione conservatrice, o, da un versante più strettamente politico, il fascismo, ma che è comunque interessante anche solo per la sua ricomparsa.

Cerchiamo di andare più nel dettaglio. D’Aspremont declina il suo discorso da un punto di vista di cultura politica, mentre è Jorjani a dare maggiormente una profondità filosofica al prometeismo. Per D’Aspremont, la destra conservatrice è destinata a perdere poiché, ponendosi unicamente come forza rallentatrice delle spinte più estreme del progressismo, in fondo ne accetta implicitamente i valori di fondo. La vittoria della sinistra progressista diventa così solo questione di tempo. La destra dovrebbe dare vita ad un suo progressismo, uscendo anche da proposte ibride – che hanno cioè al loro interno un ritorno al passato o una misura arcaicizzante – come l’archeofuturismo di Guillame Faye.

Dall’altra parte Jorjani, intende Prometeo come una figura archetipale dei popoli indoeuropei su cui essi dovrebbero basare la propria rinascita. L’ethos prometeico è per certi versi controtradizionale, in quanto presuppone una ribellione, ma allo stesso rappresenta l’anima profonda degli indoeuropei. 

Prometeo è letteralmente “colui che pensa prima”, perchè capace di previsione, progettazione e creazione, incarna la spinta civilizzatrice propria degli indoeuropei. In questo senso un transumanesimo prometeico presuppone un radicamento identitario, di contro a quello apolide e materialista con cui solitamente si pensa al transumanesimo.

In questa cornice, appare chiaro come la tecnica, o più in generale le tecnoscienze, non abbiano come deriva necessaria quella disgregatrice propria di un certo progressismo, ma che possono essere sfruttate come autoaffermazione di una volontà di potenza. Potremmo vedere la tecnica come un vettore che è possibile direzionare verso un centro, inteso come origine, essere, ordine, o verso una periferia intesa come utopia, non-essere, disordine. L’esito del progresso è aperto. La direzione verso ciò che è fuori-di-sé, verso quello che nel linguaggio nietzscheano sarebbe l’ultimo uomo o per altri versi lo spirito socratico, è solo una di quelle possibili.

Nel mito greco, Prometeo è un titano ed incarna il tipo dell’eroe civilizzatore. Egli è colui che ruba il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini. Crimine che paga venendo relegato da Zeus ai confini del mondo, imprigionato sul Caucaso dove ogni giorno un’aquila gli dilanierà il ventre e mangerà le viscere che si rimargineranno nella notte. Ciò lo ha reso un simbolo caro al romanticismo, ma anche un’immagine della lotta del progresso contro l’oscurantismo.

Questo carattere titanico, insieme sovversivo dell’ordine e del limite, rappresenta la principale accusa che la destra conservatrice muove contro il prometeismo e contro la tecnica in genere.

Non si capisce, però, come questa accusa possa effettivamente reggersi. Se si accetta una visione tradizionale per la quale quello titanico rappresenterebbe l’elemento inferiore contrapposto a quello olimpico, la collocazione di Prometeo nella sfera ctonia ed infera non è così facile. Quando i Titani si rivoltano contro Zeus, egli non li segue. Compie il furto del fuoco per amore degli uomini, i quali hanno una doppia natura titanica e divina. Viene liberato dall’eroe olimpico per eccellenza, cioè Eracle. Su questa questione, Evola legge il tentativo da parte di Prometeo di accedere ad una conoscenza superiore secondo una lente che è quella eroico-magica, per cui

“chi nel mito cade è solo un essere nel quale la fortuna e la forza non sono state pari all’audacia”. Mentre invece è solo una la lettura religiosa ad introdurre l’idea di un peccato connesso a questo tentativo: “qui la sfortuna si trasforma in colpa, l’impresa eroica in un atto sacrilego e maledetto non in quanto conclusasi in un esito non vittorioso, ma in sé stessa”.

Quest’ultima interpretazione – che peraltro Evola connette al mito di Adamo e quindi ad una visione giudaico-cristiana – ci può aiutare anche nel caso dovessimo spostare il discorso su un altro piano. L’idea della tecnica come un atto di hybris contro l’ordine naturale presuppone in realtà non il concetto greco di tracotanza, ma quello moralizzante di peccato. 

In una certa misura, ciò introduce anche una frattura tra uomo e natura. Una natura a cui, stranamente, l’uomo dovrebbe comunque sottomettersi, cosa che implicherebbe lo scadimento dell’umano nelle sue funzioni biologiche e animali. Tuttavia, come ha messo in luce l’antropologia filosofica con autori come Arnold Gehlen e Max Scheler, l’uomo è naturalmente tecnico e quindi una contrapposizione tra tecnica e natura non ha senso.

In tutto questo, bisogna ammettere che il prometeismo appare ancora più come una tendenza generale piuttosto che come una proposta definita. Ma questo è forse proprio della natura magmatica della tecnica stessa. Recuperare una sorta di innocenza perduta riguardo la tecnica, tracciare il solco di una via eroica e imporre sul mondo una nuova volontà di potenza sono le parole d’ordine necessarie per uscire dalle sacche in cui siamo finiti. 

Questo, nell’ottica di un nuovo inizio e di un pensiero aurorale, all’opposto delle smanie del progresso. Come Eracle che liberando Prometeo libera il fuoco della tecnica, che salva l’Olimpo difendendolo dall’assalto dei Giganti, che è eroe della fondazione e del nomos. Per Vico la padronanza del fuoco e la dimensione civilizzatrice di Eracle è simbolizzata nella “maggior sua fatica” che secondo il filosofo napoletano:

“fu quella con la quale uccise il lione, il quale vomitando fiamme, incendiò la Selva Nemea, della cui soglia adorno, Ercole fu innalzato alle stelle (il qual lione qui si trova essere la gran selva antica della terra, a cui Ercole, il quale si trova essere stato il carattere degli eroi politici, i quali dovettero venire innanzi agli eroi delle guerre, diede il fuoco e la ridusse a coltura)”