Di Jen
Il cibo, come la lingua, la religione e altri innumerevoli fattori culturali, è uno degli elementi fondamentali per la definizione di un’etnia. Ma è forse quello più bersagliato dall’atteggiamento etnocentrista, che consiste nel valutare gli usi e costumi di una comunità alla luce di giudizi basati sui propri.
È qui, che si scatena una grande polemica che giunge alla definizione di un’antropologia del disgusto, in ragione della quale noi siamo restii a mangiare gli insetti e gli inglesi trovano disdicevole che gli italiani mangino il cavallo: il disgusto non sarebbe, quindi, da intendersi come soggettivo bensì culturale, che ingloba in sé il mondo fisico e morale al contrario del gusto, che invece, rientra appieno nella sfera soggettiva.
Per l’uomo, essere onnivoro, quindi generalista, rappresenta al tempo stesso un vantaggio e una sfida. La flessibilità data dall’assenza di specializzazione alimentare ha consentito agli esseri umani di colonizzare tutti gli habitat della terra, adattandosi quindi alle differenti tipologie di cibo offerte.
Di contro, gli onnivori, devono spendere tempo ed energie a comprendere cosa mangiare. In che modo l’uomo discrimini un alimento mangiabile da uno incommestibile, è stato oggetto di studi dell’antropologia e ha portato a diverse risposte. Un punto di vista degno di nota è quello di Douglas che sintetizza come il cibo sia uno strumento di classificazione del mondo:
“Il corpo sociale determina il modo in cui viene percepito il corpo fisico”.
Al tempo stesso,
“l’esperienza fisica del corpo, che è sempre condizionata dalle categorie sociali attraverso cui si realizza, sostiene una visione particolare della società: esiste un continuo scambio di significati fra i due tipi di esperienza corporale, e ognuna rinforza le categorie dell’altra”.
In parole povere, l’intervento di Douglas vuole suggerire che è ritenuto disgustoso dal corpo, in senso biologico, ciò che la società ritiene tale in ragione del fatto che siamo plasmati da essa.
Un livellamento alimentare è di fatto impossibile per la natura intrinseca dell’uomo: il solo fatto di essere un animale razionale e sociale immette troppe variabili che influenzano la dieta. Tralasciando le variabili ambientali, a cui si è già accennato, rivestono una particolare importanza quelle culturali, in cui rientrano, ad esempio, le prescrizioni religiose.
Un altro dato della perentorietà di questi tabù culturali, almeno al momento, di una globalizzazione alimentare a favore di una tutela etnica, è fornito dai supermercati che concentrano la loro offerta su quelle che sono le abitudini alimentari del gruppo dominante, soddisfando solo in minima parte le richieste della minoranza, a meno che non si tratti di supermercati specializzati.
Di certo, in occidente, sarà difficile trovare un supermercato che possa vendere insetti, ma del resto non risulta impossibile. A tal proposito, si dimostra rilevante anche il fattore economico, un cibo etnico inconsueto o poco diffuso rispetto alla cultura del posto e alle sue consuetudini alimentari, infatti, tenderà ad essere meno disponibile, in quanto non risulterà un’alta richiesta del bene stesso.
Riassumendo, quindi, è la cultura e non il singolo a codificare le regole di una saggia alimentazione con una complessa serie di tabù, rituali, ricette, regole e tradizioni. Tutto ciò consente agli esseri umani di non dover affrontare ogni volta il dilemma dell’onnivoro e a sottolineare la sua natura sociale, che comporta l’identificazione con una specifica etnia.
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