Di Moro

Il 7 maggio 2021 si è celebrata nel cosiddetto mondo islamico la Giornata Internazionale di Gerusalemme (chiamata in arabo “al-Quds”, la [città] santa). L’evento è stato istituito a livello ufficiale a partire dal 1979 dall’allora guida suprema iraniana Ruhollah Khomeini, massimo esponente di quella rivoluzione islamica appena portata a compimento. La data, introdotta su consiglio dell’allora ministro degli esteri Ebrahim Yazdi, avrebbe dovuto riunire tutti i musulmani del mondo nel fenomeno della solidarietà verso la Palestina occupata.

Da questo punto di vista, non è un caso che la giornata ricada nell’ultimo venerdì del mese lunare di Ramadan. Nella cultura musulmana, infatti, il venerdì rappresenta il giorno più sacro della settimana. Il Ramadan costituisce invece il periodo dove ogni musulmano è tenuto a digiunare e a purificarsi, in memoria di quando l’Arcangelo Gabriele rivelò la profezia a Maometto. Si è scelta quindi una delle date più sacre dell’anno per ricordare e urlare al mondo la sofferenza del popolo palestinese, simbolo dei popoli oppressi nel mondo.

Non è un caso nemmeno che si sia dato un significato religioso alla ricorrenza. L’iniziativa nasce in un Iran che aveva appena vinto una rivoluzione, portando al potere una nuova classe politica che traeva la sua legittimazione da un islamismo sciita e di sinistra. Teheran ha subito adottato una costituzione che al suo interno prevedeva lineamenti di politica estera improntati sulla redenzione dei popoli oppressi, la stessa insurrezione nasce da una classe popolare vessata da una monarchia dal marcato accento capitalista e filo-americano.

Sotto questo punto di vista, lo sciismo è sempre stato una corrente appartenente agli oppressi. La pietas sciita si fonda sul martirio di Husayn Ibn Ali, il quale avrebbe dovuto guidare la rivoluzione per abbattere il potere – considerato illegittimo dagli sciiti – dei primi califfi umayyadi. Un altro elemento è l’attesa del ritorno dell’Imam occultato, il quale guiderà una rivoluzione globale per ripristinare il messaggio originario del corano e liberare i popoli oppressi, indipendentemente che questi ultimi siano sunniti, cristiani o sciiti.

È importante porre l’accento sul ruolo di Teheran nel rispondere sul senso odierno della causa palestinese, in quanto l’Iran è oggi la nazione più potente tra quelle poche che ancora si battono attivamente per questo fine. Ali Khamenei, in occasione del suo discorso per la Giornata Internazionale di Gersualemme, ha preso una posizione forte sull’argomento, rilanciando il tema attraverso tutti i canali di informazione. Questo ha ridato dinamicità ad una causa rimasta viva nel cuore di tutti i popoli a maggioranza musulmana.

Nel corso della storia recente, diverse altre nazioni si erano occupate della causa. L’Egitto di Nasser, l’Arabia Saudita di re Faysal, il Marocco e la Giordania sono esempi di stati che sebbene un tempo siano arrivati a scendere in armi per liberare la Palestina, nella loro conformazione politica attuale preferiscono avere rapporti con l’asse Washington-Tel Aviv. A tale riguardo, i recenti Accordi di Abramo hanno portato Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan ad abbracciare ufficialmente le relazioni ufficiali con Israele.

Parallelamente a questo c’è stato un aumento degli sforzi israeliani per la colonizzazione della Palestina. Con l’inizio dell’era Biden, Tel Aviv ha iniziato a pubblicare bandi per appaltare l’edificazione di migliaia di nuove unità abitative in Cisgiordania, spesso sequestrando la terra agli arabi, come nel caso del trentenne padre di famiglia Khaled Maher Nofal, ucciso mentre protestava contro la confisca della sua casa. L’evento ha prodotto una rivolta ignorata dai media, impegnati con le proteste dei Black Lives Matter.

A Gerusalemme Est la situazione non è migliore. Qui, interi quartieri – come quello di Shaykh Jarrah, di recente teatro di scontri – sono tutt’ora oggetto di confische e sgomberi casa per casa. Israele rivendica la Città Santa come capitale, perciò gli sforzi per colonizzare l’area sono enormi e prevedono spesso l’espulsione degli arabi. Le autorità israeliane impediscono inoltre alla popolazione musulmana di pregare, limitando – tramite posti di blocco militari – l’accesso alle moschee e gli spostamenti trai quartieri.

La colonizzazione della Cisgiordania avviene anche attraverso il controllo strategico delle risorse naturali. La maggior parte delle riserve d’acqua è controllata da Tel Aviv, che la ridistribuisce a sé stessa e ai suoi coloni. Discorso diverso per gli arabi che, contrariamente agli ebrei, soffrono la scarsità idrica. Gli israeliani hanno carta bianca anche sull’economia. Nel gennaio di quest’anno sono stati sradicati migliaia di ulivi, in quanto l’olio palestinese farebbe troppa concorrenza a quello di Tel Aviv. Da qui l’ordine delle autorità israeliane di eliminarli

Se la situazione in Cisgiordania è tragica, Gaza si rivela invece essere un autentico campo di concentramento a cielo aperto. La Striscia è bloccata sia via terra che via mare da Egitto e Israele, le quali annullano le capacità di merci e persone di spostarsi. Questo porta l’85% di oltre 2 milioni di abitanti a vivere sotto la soglia di povertà assoluta. Più della metà della popolazione è infatti costituita da residenti di campi profughi organizzati in maniera disordinata e privi dei servizi necessari agli individui per vivere dignitosamente.

La motivazione di questo trattamento nei confronti di Gaza sarebbe, de Juro, l’occupazione della Striscia da parte di un’entità terroristica in guerra con Israele (Hamas). Di fatto, Tel Aviv omette di dire che Hamas ha di fatto ottenuto con la seconda Intifada quello che la diplomazia internazionale non riusciva a raggiungere: il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza. Non c’è però stato un accordo firmato dalle parti, bensì un “disimpegno unilaterale”, e ciò ha permesso a Israele di operare il blocco della regione dall’esterno.

Nonostante la situazione non si sia risolta, il fenomeno delle intifada (in arabo, rivolta) ha segnato un cambio di mentalità da parte della popolazione palestinese, che si è resa conto del fatto che le altre nazioni non la verranno a salvare. Le rivolte, da parte loro, hanno rappresentato sia un evento estremamente violento, con tanto di attentati suicidi, che un fenomeno di disobbedienza civile e di protesta di massa, calibrato in modo da far aumentare il più possibile la sofferenza israeliana nel mantenere le occupazioni.

Dalla fine della seconda intifada nel 2005, Israele ha tuttavia continuato a infierire in maniera pesante su Gaza. Hamas denuncia la condotta di Tel Aviv come una messa in stato d’assedio della regione. La Striscia – nonostante una densità di popolazione di 4500 abitanti per chilometro quadrato – ha subito un numero spropositato di bombardamenti. L’ONU ha dimostrato che l’aeronautica israeliana ha utilizzato altresì munizioni al fosforo bianco, di fatto considerato un armamento chimico e illegale secondo il diritto internazionale.

L’oppressione dello stato israeliano ha generato nei successivi 15 anni delle profonde crisi che sono spesso degenerate in scontri con centinaia di morti. Il popolo palestinese, da parte sua, non ha mai smesso di sperare nel ritorno alla propria terra, e questo si è potuto vedere soprattutto con le grandi manifestazioni che nel 2018 hanno visto a Gaza i palestinesi manifestare in massa contro il blocco israeliano, in quella che verrà chiamata la “Grande Marcia del Ritorno”. Ne risultarono 183 morti e 9200 feriti da parte araba e un morto da parte israeliana.

Qui si arriva all’attualità. La sera dell’8 maggio 2021, in occasione della ricorrenza della “notte del destino”, la popolazione si era radunata nella storica moschea di al-Aqsa per pregare. La funzione fu bruscamente interrotta da un’irruzione dei militari israeliani, i quali hanno disperso la folla che intanto si era formata per protestare contro lo sgombero del circondario di Shayk Jarrah. Nello scontro sono stati utilizzate granate stordenti e proiettili di gomma che hanno causato centinaia di feriti. 3 palestinesi hanno perso un occhio.

Il giorno dopo, Hamas ha lanciato un ultimatum chiedendo a Israele di ritirare la propria forza militare da al-Aqsa e da Shayk Jarrah. Al rifiuto di Tel Aviv, è iniziato da Gaza un intenso bombardamento missilistico che nei giorni successivi ha colpito siti su tutto il territorio israeliano. Nel frattempo, sono continuati gli scontri a Gerusalemme Est, finché il 12 si sono allargati a diverse città israeliane. Caso eclatante quello di al-Lud, dove sia la comunità araba che quella israeliana si sono accusate a vicenda di linciaggi.

Tutto questo ci dimostra come la questione palestinese sia tutt’altro che risolta e di come essa rappresenti ancora una parte importante della vita di milioni di arabi oppressi, come pure un grande espediente retorico per attori geopolitici come l’Iran, il quale si adopera per costituire in Medio Oriente un fronte geopolitico alternativo a quello filo-americano. Essa vive ancora anche nei cuori di centinaia di milioni di musulmani e cristiani che rappresentano una fetta di opinione pubblica mondiale che non accetta un compromesso col sionismo.

Milioni di individui sono tuttora certi del fatto che l’attuale tensione nasce in realtà dall’esasperazione portata da uno stato israeliano che ha ignorato ogni risoluzione ONU, ogni trattato e ogni convenzione internazionale, ricorrendo ad espropri e ad espulsioni di centinaia di migliaia di individui, i cui eredi oggi sono stipati in territori che non gli appartengono più. Sono altresì certi del fatto che la Palestina delle mappe è distante da loro, e che un pezzo di carta allegato a qualche banconota non dà il diritto di usurpare un territorio.

Il punto è che nessun finanziere dovrà mai avere il diritto di scegliere aprioristicamente quale terra gli appartiene. Più dell’oro e più dei pezzi di carta vale il sangue di un popolo che da millenni occupa un territorio. Secondo alcune teorie, i palestinesi condividono un legame di sangue con gli antichi cananei, già a loro tempo sottomessi dagli ebrei. Secondo altre teorie, ogni popolo ha il diritto di decidere della sua terra e questo privilegio non può essere messo in discussione sulla base di pillole di teologia e storia antica.

La domanda si pone quindi chiara: la questione palestinese ci è distante? Appartiene solo agli arabi e ai musulmani, o invece è legittimo che essa maturi nel cuore dell’Europa? Per rispondere a questa domanda dobbiamo chiederci se ha senso sostenere la lotta di un popolo che lotta per esistere. Ha senso la lotta di una popolazione per mantenere la terra dei propri antenati? O è solo un espediente retorico attuo a preservare una visione retrograda del mondo? Perché dalla risposta a queste domande, appartiene anche il senso della nostra lotta.