Di Enrico

Da diverso tempo ormai siamo “costretti” ad assistere alle ridicole pantomime, in questo caso nel mondo dello sport, della propaganda sull’uguaglianza e contro le discriminazioni. Dagli atleti con il segno rosso sul viso contro la violenza sulle donne, a quelli che si inginocchiano in segno di supporto a Black Lives Matters e chi più ne ha più ne metta. Ma, sorvolando opinabili questioni sul buongusto, la domanda probabilmente più opportuna da porsi è la seguente: può lo sport essere egualitario? E di conseguenza ha senso cercare di trasformarlo nel vessillo dell’uguaglianza indiscriminata?

Lo sport risulta essere per sua natura anti-egualitario, già per il semplice fatto che vi siano inevitabilmente un vincitore ed uno sconfitto. Lo sport impone all’uomo la condizione di “ritorno alle leggi della natura”, come la guerra del resto, lascia che solo il più forte abbia la meglio. Questo poi ovviamente emerge più platealmente in alcune discipline (come gli sport da combattimento) e meno in altri, ma è comunque sempre presente.

Ne deriva quindi che lo sport non è di certo lo “strumento” più adatto per veicolare messaggi di uguaglianza proprio per la sua natura di competizione per la superiorità fisica e mentale. Purtroppo, però come già accennato all’inizio, questa è un’epoca strana in cui tutto deve sempre e per forza essere al servizio di quella viscida corrente di pensiero che cerca discriminazione, razzismo e omofobia anche dove non ci sono.

Un esempio eclatante di questo principio distorto è sicuramente il caso di Jamie Vardy, attaccante del Leicester City, scoppiato nel dicembre dello scorso anno e che infuriò per alcuni giorni. Egli, infatti, dopo aver segnato al novantesimo minuto il gol del 2-1 contro lo Sheffield United, fece la classica scivolata in direzione dell’angolo ma ebbe la sfortuna di colpire e far cadere la bandierina di fine campo, per l’occasione casualmente a tinta arcobaleno.

Ovviamente fu subito messo alla pubblica gogna in quanto estremista omofobo e nessuno badò minimamente alle sue più che sensate spiegazioni sull’equivoco come nessuno volle guardare ciò che successe immediatamente dopo la gaffe, quando cercò di rimettere in piedi la bandierina con grande innocenza.

Al contrario di quanto propagandato oggi, l’atleta può essere invece visto come un guerriero, il quale a differenza di un vero soldato ha la fortuna di “combattere” con delle regole, che vanno a eliminare ogni tipo di scorrettezza e gli permettono di vivere a pieno il confronto con sé stesso e l’avversario nella “legge del più forte”. Questo concetto di atleta-guerriero è molto presente nella millenaria cultura europea, basti pensare alla tradizione dell’antica Grecia in cui la linea di separazione tra sportivo e guerriero era molto sottile e a tratti impercettibile.

Alla luce di tutto questo si potrebbe concludere rimarcando che lo sport rappresenta una delle poche e sempre più rare attività umane in cui sopravvive l’istinto primordiale. Tentare di farlo diventare a forza più politicamente corretto in quest’epoca del “per tutti, per forza” non farà altro che portare alla sua totale degradazione come tutto ciò che viene permeato da questo genere di filosofia contorta.

Non ci sarà quindi da stupirsi quando anche nello sport verrà a mancare la poesia, quando anche lo sport sarà privo di etica, epica ed estetica.