LA STORIA NON È FINITA

Di Sergio

C’è un vecchio film, una pellicola del ’62 diretta da David Lean, Lawrence d’Arabia interpretato da Peter O’Toole. Una frase che resta impressa nell’innumerevole scorrere dei minuti del colossal è composta da sole tre parole. Tre. Le pronuncia il protagonista, madido di sudore e prossimo alla disidratazione dopo aver salvato da morte certa un uomo della sua compagnia di rivoltosi del deserto. Uno dei tanti straccioni che lo seguono come un santo, uno schiavo dell’idea rivoluzionaria che domina la marea Araba composta da innumerevoli numeri senza storia e senza nome, un grande esercito di terracotta senza volto e senza armatura. Tutti uguali, tutti nessuno. Conta solo la pelle riarsa sotto l’incudine del sole. Ma non per l’uomo bianco venuto dall’Inghilterra: “Niente sta scritto”.

Il beduino è salvo nonostante il suo fato fosse già segnato, prima che da Dio dai suoi stessi commilitoni, che senza troppi indugi decidono di lasciarlo indietro quando questo si perde nel deserto. Dove vita e morte sono sul piatto di una bilancia, la vita del singolo pesa come una piuma rispetto al gruppo, non c’è spazio per la morale, non c’è speranza per i deboli. Ma ecco che contro la mentalità sovrana del deserto e delle leggi di Dio si pronunciano tre parole che racchiudono un senso che va ben oltre il film, la storia della spia inglese e la rivolta araba del 1916.

Infatti, nel vaticinio Niente sta scritto si raccoglie il senso di un’altra rivolta, la rivolta di ieri e di oggi, la rivolta di sempre. La nostra, quella che combatte la rassegnazione, l’ignavia, il fatalismo di chi obbedisce alle leggi bibliche del Capitale, della perdita e del profitto, del dono “rubescente” (come lo chiama la Bhagavadgita): ovvero quel dono, quell’azione, quel pensiero che si fa solo in vista di un contraccambio. Abbiamo emancipato la storia dai dogmi della Chiesa solo per consegnarlo ai dogmi della mediocrità elevata a sistema, per consegnarci mani e piedi al nulla di una vita che annega, come il marinaio fenicio di Eliot, nei gorghi di un mare senza limiti e confini.

Abbiamo abolito l’uomo, come scrisse Lewis nel 1943: “Facciamo uomini senza cuore e ci aspettiamo da loro virtù e intraprendenza. Ridiamo dell’onore e inorridiamo nel trovare traditori in mezzo a noi”. Abbiamo accettato un copione (una costituzione), insomma, un manualetto sul come non essere uomini, sul come non-essere e basta. Possiamo larvare tra la cameretta e l’uscio del portone per ricevere Amazon e la cena, possiamo avere opinioni da spiattellare sulla piazza virtuale, possiamo masturbarci e credere di essere grandi scopa femmine, possiamo dire che la Terra è piatta. L’importante è seguire il copione, un copione da Oscar come migliori attori non protagonisti.

Uomini di latta? Magari. Una macchina che sa di non avere un cuore anela ad averlo, un Cyborg alla Roy Batty di Blade Runner è più umano degli umani perché desidera ciò che non vede, ma noi invece non sappiamo di non averlo e quindi non lo desideriamo. Non desideriamo, ecco il punto, perché quando si innesta in noi (per usare il gergo di Inception) l’idea che questo, proprio questo, è il migliore dei mondi possibili, allora non c’è più niente da desiderare/tentare/cambiare, prima che nel mondo in noi stessi.

Se ti guardi allo specchio vedi il nulla del mondo che ti circonda. Riflesso involontario. Tutto questo perché secondo il copione la storia è una linea retta iniziata con la preistoria che terminerà con una post-storia, primitiva e animale, senza orizzonti e senza niente da fare. Un’idea che tramuta la vita, in ogni suo aspetto, in una semplice attesa della morte. Ribellarsi all’idea di non avere più niente da fare, recitavano le parole in libertà futuriste che tornano a noi più prepotenti che mai in quest’epoca di scuse per non-fare.

Cosa vuol dire allora, che la storia non è finita?

Significa fare un bagno d’umiltà: il 2021 non è un anno unico ed eccezionale, ma solo quello che sta tra il 2020 e il 2022. Significa assumere la consapevolezza tragica che siamo di passaggio sulla Terra e che possiamo partecipare ad essa per dargli il senso che vogliamo. Non siamo pezzi unici e rari, come sentenziava Tyler Durden in Fight Club, siamo qui per ordinare i nostri giorni e desiderare di più, di meglio, per noi stessi in primis. Siamo qui per lottare e contraddire. Per fare oggi diverso da ieri e domani diverso da oggi.

È il senso della storia che Giuseppe Rensi (socialista) definì Filosofia dell’Assurdo. “C’è storia perché gli uomini si contraddicono, la pensano diversamente, hanno dispareri”. È il senso della storia che Giorgio Locchi definisce come il “campo delle possibilità”. Dire la storia non è finita non è solo uno slogan, ma un nuovo modo di concepire lo stare al mondo contro il globo ad una dimensione temporale, ideale, spaziale.

È la sentenza Platonica con cui abbiamo iniziato la nostra mini-rivoluzione di Socializzazione Scolastica: “Tutto ciò che è grande sta nella tempesta”, che sta a significare che prima di tutto noi vogliamo contrasto, lotta, dibattito, movimento, respiro. La storia non è finita, infine (per ora), significa che ogni vita va vissuta come nuova in antidoto alla noia che incatena la volontà.

Nessuno ci costringe a portare il peso delle colpe di chi ci ha preceduto, nessuno ci costringe ad obbedire ai ricatti della memoria, nessuno ci costringe a seguire ciò che altri hanno scritto per noi. La storia non è finita nel 1945, la guerra è finita, l’Italia no. È un gioco di trame, di discese e risalite, grandi salti ed eterni ritorni, di nuove strade e sentieri aperti sugli squarci della storia. Significa credere, contro tutto e tutti, che niente è già dato, è sempre tutto da rifare, è sempre un nuovo inizio, una nuova fondazione, una nuova avventura di cui noi siamo gli artefici.

Insorgere contro il fatalismo. Questo è il principio su cui si basa la nostra Socializzazione Scolastica e la prima riflessione da cui è germogliata una proposta che vuole dare forma al mondo: “L’inizio è ancora…” disse Martin Heidegger. Ed è sorprendente notare come lo spostamento di un accento possa trasformare ancòra, avverbio che indica la persistenza dell’azione nel tempo, in àncora, ovvero l’oggetto nautico che salda al fondale la chiglia di una nave.

L’inizio è ancora quindi: punto che ci salda ad una storia mai finita e sempre in vibrazione. Le nostre azioni hanno un significato, una causa ed un effetto. Per sempre.