Di Sergio
È una produzione Disney, una filiera infinita e interminabile di merchandise pre-post-durante natalizio, un successo acclamato da critica e fan: ora che abbiamo detto i difetti della serie The Mandalorian, spin-off della ben più vasta saga cinematografica di Star Wars, passiamo ai suoi pregi. O meglio, quali sono le qualità della serie che ci devono far apprezzare ancora di più dei comuni fan la saga del “Mando”?
Prima di tutto, e non è scontato per le elefantiache produzioni Disney, la qualità intrinseca di trama, personaggi e contesto che a molti ha fatto preferire la serie creata da Jon Favreau all’ultima trilogia “ufficiale” che oltre a contare il cast di un certo livello ha avuto alla regia un mostro sacro come J.J.Abrams. Ma ecco il primo insegnamento del Mando: i soldi non fanno la qualità e soprattutto non creano pathos, quelloche ha sempre contraddistinto la saga di Guerre Stellari e lo ha fatto entrare di prepotenza nella cultura popolare di tutto il mondo. Difetto che sconta tutto l’ultima trilogia, incapace a nostro avviso di suscitare qualcosa oltre il wow, con un misto di già visto e già sentito.
In secondo luogo, sempre per essere una produzione Disneyana, le due serie non soffrono di nessun accomodamento politically correct: nessun attore forzato (vuoi anche la natura intrinseca della serie ambientata in una galassia già multi-etnica), nessun ammiccamento gay-friendly (avvenuto invece nel film L’ascesa di Skywalker), nessun piagnisteo femminista, nessuna battuta fuori luogo o fuori contesto come invece avvenuto nella nuova serie Netflix Star Trek Discovery, annacquata di temi in salsa dem.
Tutto è come deve essere in The Mandalorian, anzi di più: in questa serie, infatti, l’universo Star Wars non viene stravolto, ma portato su un piano molto più crudo, violento, realistico rispetto ai film dove la trama si inserisce sul solco dell’archetipica avventura cavalleresca contro il male. The Mandalorian non ha IL cattivo per antonomasia ma dà l’idea che ognuno dei personaggi è (o può essere) all’occorrenza ciò che vuole.
Uno spaccato crudo che rompe con la prosa aulica degli eroi senza macchia e ci immerge in un eroismo più vero, quello dell’uomo forte, senza mezzi termini. La storia è semplice, ma attenzione, una semplicità genuina che ci fa apprezzare da subito il personaggio principale: un uomo. Meglio ancora: un guerriero. Di più: un guerriero e il suo codice d’onore in mezzo al caos e alla violenza di un Impero al collasso.
È il Mandaloriano: un orfano allevato e cresciuto sin da bambino da una casta guerriera che è una via di mezzo tra la setta degli assassini e la società Spartana. What else? Già questo ci dovrebbe mandare in estro, ma c’è di più. Infatti, andando avanti con la trama e le puntate si scopre che i Mandaloriani non sono propriamente una razza biologica (non tutti almeno…) ma un clan che raccoglie vari tipi umani nel Credo.
Singolare è una delle battute culminanti della prima stagione: “I mandaloriani non sono una razza, sono un credo”.
Questo Credo altro non è che un codice cavalleresco, un codice d’onore che impone il rispetto di rigide regole, come per esempio la copertura totale del volto con un elmo, il culto quasi religioso delle armi, la venerazione per il beskar: un raro minerale che una volta forgiato ad arte dai mandaloriani diviene una corazza indistruttibile e un simbolo di riconoscimento inconfondibile nei molteplici mondi della Galassia.
Tutta la storia dei Mandaloriani è avvolta nel mistero, su cui aleggia una vera e propria tradizione orale semi-epica. Tutti li conoscono, tutti lì temono: l’Impero, che li ha sterminati nelle purghe e costretti ad un’esistenza errabonda, i Jedi che li hanno combattuti in epoche più remote al di fuori delle saghe cinematografiche e televisive, la stessa alleanza ribelle che prova nei loro confronti rispetto e timore. Insomma. Ce n’è per tutti e non vogliamo spoilerare oltre allo sventurato che ancora non ha visto le due serie da otto puntate.
The Mandalorian è una serie che ci porta nei lati oscuri della Galassia di Star Wars, o meglio nelle penombre: è un viaggio tra mondi deserti, ghiacciati, periferie malfamate dove signoreggiano clan, gilde, mafie, predoni, potentati industriali, signori della guerra o semplici pistoleri. Una Galassia lontana dai fasti della Repubblica e l’ordine dell’Impero, dove la sola legge è la forza e dove l’unica regola è la violenza. Un caos generalizzato dove non ci sono buoni e cattivi, ma personaggi che nel bene e nel male tentano di affermare il loro potere.
Nessuno crede in niente: salvo rare eccezioni, salvo il nostro Mando che facendo capo soltanto al suo libero codice d’onore, si imbarca in un’avventura più grande di lui. Si mette in mezzo, potremmo dire. Dove tutti tirano a campare, lui compreso, la svolta avviene quando la ragione d’onore prevale sulla ragione del guadagno, quando salta il piatto della bilancia e lo status quo viene stravolto, quando lui si mette in testa che tutti appartengono a qualcosa e il suo unico scopo diviene riportare a casa chi è stato portato via da casa.
Nessuno in questa serie è uno stinco di santo e per questo è molto coinvolgente: ognuno ha un peso sulle spalle di azioni passate, ci sono i veterani delle guerre (di ambo le parti) che tentano di farsi strada nel nuovo ordine creato dalla Ribellione, ci sono gli Imperiali che tentano di serrare i ranghi per riconquistare il potere mentre la “Nuova Repubblica” tenta di affermare legalità ed ordine dopo aver rovesciato a sua volta un ordine costituito, ci sono i poveri diavoli che cambiato il potere non è cambiato niente per loro. Ci sono i morti: questa serie mostra la morte in maniera molto più cruda rispetto ai film, dove un’intera base spaziale da milioni di uomini poteva saltare in aria senza che nessuno rimpiangesse quel milione di uomini polverizzati.
Le storie più belle, quelle che piacciono e rimangono impresse, sono quelle che riassumono in forme nuove archetipi ancestrali: il viaggio, il guerriero, il bambino, il ritorno. Checché ne dicano i fanfaroni del tradizionalismo duro e puro o gli stronzi vari che vorrebbero solo storielle confetto alla peppa pig, la fantascienza (almeno la migliore) ha il pregio di portare in narrazione fantastica valori arcaici che appartengono alle nostre tradizioni e di mostrarci il comportamento degli uomini di fronte alle sfide di un futuro plausibile o meno.
E poi, per chi non lo sapesse, uno dei primi romanzi di fantascienza della storia, datato 1920, fu dello scrittore italiano Vincenzo Fani Ciotti in arte Volt: futurista, fascista, autore di “La fine del Mondo: romanzo di fantascienza futurista”, in cui si immaginava il dilemma ideologico di una futura conquista spaziale, e la lotta tra i sostenitori di una colonizzazione pacifista ed umanitaria contro i fautori di un’espansione di tipo imperiale… vi ricorda qualcosa? Esatto, il primo prequel di Star Wars è nostro e ci parla di sete di conquista e sfida alle stelle:
«Nella parte migliore della gioventù europea, si era diffuso largamente un senso di insofferenza, un bisogno di novità, una nuova sete di conquiste. La Terra era divenuta troppo stretta per gli uomini. L’umanità intera, insofferente dei vecchi legami, anelava con un animo nuovo alla conquista del cielo».
Tutto cambia? O tutto resta uguale? Cambiano gli uomini, cambiano gli ambienti, ma non cambiano le passioni, i geni, le idee e le loro tragedie. La fantascienza proietta nel futuro i nostri alter-ego, le nostre visioni mentre le costruiamo nel presente. Se proiettiamo solo la visione politically correctdel globalismo e del progresso senza valori ecco a voi il mondo nuovo senza eroi, senza differenze, senza storie da raccontare: distopia vivente delle nostre peggiori intenzioni. Se proiettiamo più in là i valori di epica, radicamento e avventura ecco a voi un’età eroica che si schiude alla conquista degli spazi siderali.
Vogliamo proiettare libertà o legalità? Profetico e più attuale che mai quindi il dialogo tra il Mando ed un ufficiale imperiale, quando quest’ultimo afferma riferito alla Repubblica sorta dalla ribellione: “hanno scambiato la libertà per l’ordine, quando si renderanno conto che in realtà vogliono ordine ci accoglieranno di nuovo a braccia aperte”. La migliore fantascienza quindi è quella che ci fa riflettere sul futuro, ma anche e soprattutto sul presente. The Mandalorian non è da meno: il Mando è ligio alla sua consegna, sempre.
In lui vive il senso di appartenenza ad una comunità gerarchica libera nel suo credo, dove la guerra assume valore di lotta e liberazione, anche di vendetta e riscatto. In lui vive la “causa generale dei disgraziati” che fu dei ribelli di ogni tempo, di chi sogna di riavere la sua Patria o la sua casa, di chi sogna un posto in cui stare (il sogno del primo compagno di avventura che incontra sulla via). In lui c’è quella giusta dose di menefreghismo, audacia, spavalderia e distaccamento che ci vuole per barcamenarsi e saper vivere il presente.
In lui, infine, riecheggiano parole familiari: this is the way, questa è la via, perché noi non possiamo fare altrimenti… questa la nostra vita, questo il nostro essere.
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