Di Bianca
Chi durante gli studi non ha affrontato il celeberrimo tema della “tratta degli schiavi”, che tanto ha trafficato l’Atlantico dal Cinquecento in poi? Senza contare eventuali progetti esterni al programma scolastico, che trattano l’argomento con abbondanza di documentari, film e altri materiali, di cui si ha una scorta ben fornita, come pochi altri contesti storici. Tanto che si può affermare indubbiamente che dopo l’Olocausto il traffico di schiavi dall’Africa alle Americhe è l’argomento più quotato dai docenti nella scelta degli approfondimenti scolastici per gli studenti. Infine, specialmente negli ultimi tempi – ricordiamo le parate antirazziste dei BLM nei mesi scorsi – l’argomento è diventato la trita tesi da doversi subire trattandosi di privilegio, razzismo e strapotere dell’uomo bianco.
L’intento non è, ovviamente, quello di sminuire l’entità storica dell’accaduto: nessuna cultura ha il diritto di imporsi arbitrariamente sull’essere di un’altra, sottomettendola, negandola, distruggendola, privandola della sua terra d’origine, umiliando il suo popolo e costringendolo alla schiavitù; senza nessuno scontro identitario, nessuna rivalità dettata dall’onore, ma per una mera questione di guadagno. È stata infatti una certa retorica dell’azzerare i confini e dell’espandere le rotte commerciali allora conosciute a fare da guida per la tratta degli schiavi. Un progetto che voleva superare i limiti dei traffici mercantili del tempo, ma che in realtà rispondeva solamente all’avidità nuda e cruda e allo sfruttamento di più manodopera possibile, nascondendosi dietro a parole come la libertà, il cambiamento delle proprie vedute, la necessità dell’uomo di “integrarsi” col resto del mondo. Dunque, detto questo, chi è il vero responsabile?
Ma già minimizzare la storia in schieramenti, buono, cattivo, innocente, colpevole, è sintomo di un tempo vuoto, malato, insofferente alla storia stessa. Un tempo incapace di inserirsi in un divenire dell’uomo complesso e da analizzare nella sua totalità, da comprendere prima di contestualizzarlo e ricavare quelle risposte che hanno portato al qui e ora. Un tempo che vive di dogmi superficiali, falsi, scontati, immutabili, in cui ogni contestazione storica e ogni minima revisione o ricerca determina il grido allo scandalo. Un tempo che non è in grado di fare i conti con il suo passato, è perso nel suo presente e che è destinato a non avere un futuro.
La lista di fatti storici “scomodi” a questo sistema ne è un chiaro esempio, basta pensare al periodo eretico per eccellenza dei giorni nostri, la Seconda Guerra Mondiale. Ma, ritornando al tema precedente della schiavitù, c’è un caso particolare riguardante nello specifico la nostra Nazione; che nemmeno è stato negato, stravolto, sminuito, ma del tutto ignorato e dimenticato: si parla del caso storico dei risaioli.
Ducato di Milano, seconda metà del XVI secolo. Buona parte della Lombardia occidentale, comprese alcune zone del Piemonte e dell’Emilia, erano sotto il dominio degli spagnoli, conteso dai francesi dell’imperatore Francesco I. Mancano decenni prima che la falce della peste nera inizi a mietere migliaia di vittime in Italia e in Europa, e i territori citati erano solo l’appendice del grandioso progetto di Carlo V, che mirava a consolidare i suoi domini in Europa, a conquistare le Americhe e a estendere il suo potere anche oltreoceano; fallendo, però, di fronte all’incombere delle monarchie nazionali. Il Ducato di Milano, legato a filo doppio con lo Stato della Chiesa, era il primo produttore in Italia del riso, per l’abbondanza delle risaie, che si estendevano per le campagne milanesi e novaresi.
Legati fra loro con corde se non con catene, curvi e con le caviglie immerse nell’acqua dalle prime luci dell’alba fino agli ultimi scorci del tramonto, a respirare l’aria malsana delle risaie, stavano i risaioli, occupando l’ultimo gradino della scala sociale della bassa (cioè la pianura fra Milano e Novara, come veniva chiamata allora dalla parlata rurale del luogo).
Tutti uomini, dall’età molto varia, impegnati stagionalmente nel trapiantare il riso e a estirpare le erbacce, da maggio a settembre, e strettamente sorvegliati dal loro padrone che non esitava a fare uso della frusta per incitarli a lavorare più in fretta o per risvegliare chi, per stenti, fatica o malattie, non seguiva il ritmo degli altri. La loro paga consisteva in pane scadente con il minimo indispensabile di acqua, una volta al giorno. Scappare era un’impresa vana, per le loro condizioni fisiche allo stremo contro gli inseguimenti a cavallo del sorvegliante, il buio totale nella bassa e la dura punizione corporale che seguiva la tentata fuga. Ma chi erano veramente i risaioli?
Erano uomini e giovani con malattie mentali o con deformazioni fisiche, o col volto sfigurato dalle cicatrici del vaiolo o della lebbra, impresentabili anche solo per chiedere l’elemosina. Venivano attirati dalle false promesse dei sorveglianti che garantivano loro e alla loro ignare famiglie la facilità del lavoro, descritto addirittura come piacevole, rilassante e privo di fatiche, nonché ben retribuito. Era anche prevista la firma di un contratto, che di fatto sentenziava la perdita irrecuperabile della loro libertà, per la totale assenza dei diritti sul lavoro – si parla sempre di un periodo a cavallo fra Cinquecento e Seicento – ma incomprensibile ai diretti interessati per il loro essere analfabeti, anche se non c’era bisogno di aspettare molto prima che si accorgessero della cruda realtà della loro condizione.
Pochi di loro riuscivano a sopravvivere fino alla fine della stagione dei risi. Si spostavano di villaggio in villaggio, viaggiando per tutta la bassa, tornando nei loro villaggi sulle Alpi durante l’inverno nell’attesa della stagione successiva, costretti a una vita di sofferenza e schiavitù, perché l’alternativa sarebbe stata morire di fame. La compravendita dei risaioli, al pari degli oggetti e delle bestie, si organizzava nei mercati contadini dei paesi, e si svolse per buona parte del Cinquecento, nei due secoli che seguirono e fino all’occupazione napoleonica, quando il governo francese si sostituì allo spagnolo dopo una lunga e travagliata contesa dei nostri territori sotto gli occhi indifferenti del popolo e della Chiesa, troppo impegnata nella burocrazia della Controriforma.
Come scrive Sebastiano Vassalli nel suo romanzo storico La Chimera:
“L’Europa, quando poi ha scritto la sua storia e quella di tutte le altri parti del mondo, ha pianto ipocrite lacrime sui neri che lavorarono nei campi di cotone in America e su ogni genere di schiavi, moderni o antichi: ma non ha speso una parola, una sola!, sui ‘risaroli’. Nemmeno la Chiesa, così prodiga, dopo la Riforma, di missionari e di Santi che accudivano i lebbrosi in terre lontanissime, curavano gli appestati fino in Cina e cercavano di convertire i giapponesi parlandogli in latino, s’è mai accorta della loro esistenza sulla porta di casa. E sì che non erano mica pochi: erano migliaia, di qua e di là dal Ticino, e morivano in gran numero, ogni anno, senza cure mediche e senza conforti religiosi”.
Invece quanti ossequi, riguardi, riconoscimenti, lodi e meriti alle mondine, che si sostituirono ai risaioli durante l’Ottocento! Descritte come le eroine dell’emancipazione femminile, la salvezza dell’economia del Nord Italia, un impareggiabile esempio di sopportazione delle fatiche imposte dai privilegiati maschi bianchi; categoria di cui i risaioli facevano parte, e per questo destinati all’oblio.
Una “colpa” a cui si aggiunge, nuovamente, quella di essere italiani. Tante epoche, guerre, vicende sono trascorse durante quei secoli che ci separano da quei secoli, il XVI e il XVII, che ci appaiono così lontani. Eppure, ancora una volta, l’identità italiana diventa una discriminante quando a richiedere giustizia è il nostro popolo, e non un accaduto esterno su cui rovesciare la più ipocrita e buonista delle compassioni per deresponsabilizzarsi dalle proprie colpe.
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