Di Lemmy
Come riscoprire i dialetti locali mentre il mondo anglicizza tutto il resto
Ai tempi della Grande Guerra, quando ancora l’istruzione era un lusso, era normale ritrovarsi al fronte, conoscere camerati altoatesini e calabresi mentre chiacchierano nei loro dialetti. Si udivano accenti toscani e pugliesi discutere nelle rare pause, con una bottiglia in mano e un pentolino mezzo freddo nell’altra. I contadini e i soldati si esprimevano così, d’altronde. Una lingua semplice, a volte grezza e aspra, a volte più dolce e musicale. Ogni dialetto aveva, e ha ancora oggi, tanto da insegnare alle nuove generazioni, così come noi stessi abbiamo tanto da apprendere e conservare. Certi detti popolari, espressioni rimaste immutate nel tempo, certe frasi iconiche non possono essere tradotte in italiano. Semplicemente non renderebbero l’idea che incarnano nello stesso modo.
Dal dialetto napoletano a quello veneto, passando per quello emiliano e toccando le sponde del lariano, oggi ci fermiamo proprio qui.
Ci fermiamo per riscoprire un artista che da quasi trent’anni compone pezzi quasi interamente in dialetto comasco.
All’anagrafe è Bernasconi Davide, per la scena musicale è Davide Van De Sfroos. Lo pseudonimo Van De Sfroos restituisce foneticamente in lingua lombarda l’espressione “vanno di frodo, vanno di contrabbando”. E bisogna ammettere, che come già detto prima, in dialetto suona meglio.
Molti lo conosceranno per la breve apparizione nel 2009 al Festival di San Remo, dove si classificò quarto assoluto con il brano “Yanez”. Il pezzo, scritto in dialetto laghèe appunto, immagina una ipotetica vacanza di Sandokan, il celebre eroe di salgariana memoria, che ormai anziano, si ritira in un albergo sulla riviera romagnola. La rivisitazione in chiave ironico-nostalgica della vita in pensione è spesso presente nelle canzoni di Van De Sfroos.
Ovviamente non mancano anche canzoni più introspettive, come El Mustru. In questo pezzo, dell’album “E sèmm partii…”, il testo narra di un pescatore che incontra una creatura mostruosa, storia a cui nessuno crede. Ricoverato in casa di riposo e creduto matto, racconta come da giovane era “el Re di pescatur”, e di come questo mostro gli abbia rovinato la carriera e fatto perdere credibilità. Tutto questo raccontato in dialetto da Bernasconi, che unisce sapientemente sonorità blues e folk.
Sempre di storie si parla con Van De Sfroos, che qualche anno dopo pubblica l’album “Pica!”, nel 2008, dove il personaggio analizzato è il celebre Alain Delon de Lènn (di Lenno, un paese in provincia di Como – ndr). Un uomo ormai anziano, con un passato da avventuriero, affascinante come l’attore francese, con quella classe da furfante reclamata anche dal “nostro” Manifesto del Turbodinamismo.
“perché lui ha sedotto il destino e dirottato la notte ai suoi piedi…
con il Lucciola oltreconfine ha vissuto quei tempi che ancora non credi…
la coscienza una valvola rotta, troppo stanca e confusa per far dei ricatti…
atteniamoci alla leggenda che conserva integri i fatti
non provare la sua corona che ti cade sugli occhi, finisci per terra”
Le storie raccontate nelle canzoni non sono inventate, molti personaggi sono persone realmente esistite.
“La ballata del Cimino”, ambientato vicino al Crotto dei Platani, racconta di un contrabbandiere vero, che molti anni fa, per sfuggire ad un controllo dei finanzieri, si gettò nel lago col carico di sigarette per non farsi scoprire. Il Cimino vagò mezzo nudo per il bosco, arrampicandosi sulle montagne fino a tornare a casa “come un cinghiale in tanga, un lupo con le Superga”.
Storie di uomini, con il viso scolpito dal lago, a metà fra mascalzoni delle valli e moderni Robin Hood, con la battuta pronta, la schiena dritta e ben chiaro il loro posto nel mondo.
Storie da riscoprire, come da riscoprire è il dialetto con cui sono cantate. Un impasto di suoni che spazia dalle ballate folk tradizionali e goliardiche, fino alle poesie recitate in acustico sotto il Duomo di Milano, con elementi rock blues come le chitarre elettriche e gli assoli accattivanti, fanno di Van De Sfroos uno degli artisti di riferimento della scena indipendente, con l’aggiunta stilistica dell’utilizzo di un dialetto ormai quasi dimenticato, portatore di valori e racconti da tramandare, perché patrimonio comune e simbolo dei nostri luoghi.
Van De Sfroos è solo uno degli artisti da conoscere, che cantano nel proprio dialetto. Ed è solo un pretesto per tornare a visitare luoghi da salvaguardare e proteggere, mentre nel resto del mondo una costante e insaziabile sete di anglicizzazione spreme e distrugge concetti e modi di dire locali, uniformandoli in un calderone di nulla cosmico, de facto distruggendo le culture locali e imponendo terminologie di (obiettivamente) scarsa qualità lessicale ed espressiva.
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