Di Sergio
Non bisogna essere degli illuminati per capire l’importanza assunta dal lavoro nella vita degli uomini e delle donne nell’ultimo secolo. Un’importanza che può essere esaltata o disprezzata, ma che in ogni caso resta un aspetto centrale (se non il più importante) del dibattito economico, politico e storico del novecento e dei primi vent’anni del nuovo millennio.
Se da un lato c’è l’esaltazione del lavoro come unico mezzo e fine dell’homo oeconomicus, ovvero quel tipo di uomo sintetizzato dalle dottrine del capitale e del consumo che limita la sua sfera d’azione all’esclusivo e razionale interesse individuale, effimero e sempre precario, dall’altro è sorta in contrapposizione (ma pur sempre erronea) la visione dell’uomo che rifiutando il lavoro per le humanae litterae si eleva al di sopra dei poveri diavoli che affollano le fabbriche, gli uffici, le strade. Una divisione della società puramente classista, che gode della sua divisione in classi e nella perenne contrapposizione del ricco al povero, dell’industriale all’operaio, del laureato al diplomato e crea due mostri altrettanto terribili: l’uomo che non lavora per vivere ma vive per lavorare, sempre in balìa della ricerca di più denaro, e l’uomo che fa del pensiero e della cultura senza aver mai avuto contatto con la realtà, se vogliamo la tipica macchietta del professorino che ha letto cento libri ma non sa avvitare una lampadina al soffitto.
Ora, qual è il punto? Il punto è che questa divisione in compartimenti stagni del sapere, produce una schizofrenia tutta moderna secondo la quale, per esempio, un professore di lettere è materialmente superiore ad un operaio edile. Non è mia intenzione fare del peloso e inutile comunismo d’accatto: ognuno ricopre il ruolo che è conforme alla sua natura, il punto è piuttosto ritornare a considerare il lavoro non come pensiero o azione, divisi e separati, ma come pensiero e azione, ritornare a dare al lavoro manuale ed artigiano la stessa importanza del lavoro intellettuale. Tornare a coltivare un rapporto verticale anche e soprattutto con il mondo di chi produce è essenziale se si vuole riprendere il cuore di questa Nazione che non è solo nelle Università, sempre più vicine a scuole di politicamente corretto che allevano giovani benpensanti e precari, ma anche e soprattutto nelle strade.
Perché se il mondo mainstream ci fa credere che il Partito Democratico è ancora il primo partito, anche e soprattutto per deficienza del centrodestra, ci fa anche credere che l’Italia sia cristallizzata tra il salotto dell’Espresso e quello di Formigli, mentre la realtà cruda (che fa male anche a noi) è quella della vittoria sempre netta dell’astensionismo, del lasciar correre, di chi semplicemente non guarda la Tv se non per i telefilm a cui non interessa nulla se non alzarsi la mattina per andare ad occupare in silenzio un posto di lavoro.
Un esempio lampante di questa schizofrenia ce lo ha dato, solo qualche settimana fa, la nota influencer Chiara Ferragni che intervenendo liberamente sul caso Willy ha definito i “coatti” di Colleferro come “fasci” “ignoranti” figli di quella che sembrerebbe essere una scuola che istruisce ad una cultura di violenza. A scanso di un’opinione personale che purtroppo ha lo stesso peso (se non maggiore) di quella del Papa, qualcuno avrebbe dovuto rispondere che la Ferragni e il marito Fedez campano “sui e con” i coatti ignoranti tatuati.
Ma aspettate, non si vuole qui fare i superiori o tantomeno esprimere giudizi sui gusti musicali delle persone ed ancora meno su quelli sessuali (dato che se la bionda e bianca Chiara è così seguita un motivo ci sarà…) come spesso accade anche nella nostra area, ma si vuole far luce su un fatto paradossale ed essenziale: i coatti, i bori, chiamateli come vi pare, non sono solo quelli che acquistano, ma sono soprattutto quelli che lavorano e rendono possibile l’industria discografica e dello show-business grazie ai quali i ferragnez fanno una barca di soldi.
Mi spiego: secondo voi chi mette “fisicamente” in piedi i concerti del rapper, o di qualsivoglia artista più o meno impegnato? Un esercito di coatti, tossici, ex-carcerati, facchini ed operai, assunti da losche cooperative per mettere in piedi i palchi negli stadi e nelle piazze di tutta Italia. Un esercito che non vota, non guarda la tv, non ha twitter, che lavora dodici ore al giorno per dieci giorni, con la pioggia o sotto il sole d’agosto, per sei euro e cinquanta l’ora (nel migliore dei contratti), che non ha rappresentanza sindacale e nemmeno la sicurezza di una copertura assicurativa.
Perché tutto questo? Perché uno stronzo vestito da fighetta possa cantare dieci canzoni per un’ora di fronte ad una platea di ragazzini con lo smartphone in mano, magari concludendo con qualche bella parola per le minoranze discriminate. Ovviamente questo è un caso limite, che conosco per esperienza personale, ma che rappresenta quella divisione che in scala minore o maggiore avviene in tutti i campi del mondo del lavoro.
Alieni che insultano la loro manovalanza mentre la manovalanza si aliena per avere quello che gli alieni gli dicono sia la felicità. E questo succede anche quando un’azienda deve allinearsi ai diktat buonisti degli alieni (vedi caso Black lives matters) se vuole evitare di essere tagliata fuori dal mercato ed evitare il fallimento e il licenziamento dei lavoratori.
Assurdo, ma è così. È lo stesso paradosso dietro il quale si cela il mito buonista dello ius soli: facciamoli cittadini italiani perché finalmente possano raccogliere i nostri pomodori. È lo stesso paradosso nel quale vive la nostra costituzione.
Siamo una Repubblica “fondata sul lavoro”, ripetono gli epigoni della costituzione più bella del mondo, eppure, se ci fermiamo solo un attimo a riflettere viene fuori un quadro ben diverso.
Come può una democrazia (o sedicente tale) fondarsi su qualcosa, il lavoro in questo caso, che democratico non è? Si, perché il lavoro, se qualcuno non se ne fosse accorto, dalla fabbrica all’ufficio per passare dalla scuola, non ha nulla di democratico. Anzi, assume le forme di una gerarchia piramidale su cui troneggia, essenzialmente, il capitale.
Un paradosso ambiguo che soprattutto con l’avvento della globalizzazione ha divaricato sempre di più la forbice tra le libertà personali e le libertà essenziali e ha incatenato il lavoratore alla sua capacità di consumo e non di produzione.
Ma attenzione, questa non è una stortura della democrazia, una deviazione del percorso, ma il suo supremo compimento.
Un capolavoro di ipocrisia in cui viviamo tutti i giorni. Se la Repubblica è fondata sul lavoro perché il lavoro, in tutte le sue parti, non è rappresentato? Perché il lavoro soggiace al potere di enti sovranazionali e concorrenza con paesi senza legislazioni sul lavoro? Incredibile, ma la Repubblica democratica fondata sul lavoro ha via via smantellato la sovranità economica per consegnare armi e bagagli il suo comparto industriale a privati il cui unico interesse è (ovviamente) la massimizzazione del profitto.
Molto democratico da parte vostra, verrebbe da dire quando vediamo le acciaierie svendute, le industrie delocalizzate, mentre le strade si riempiono di zelanti riders che in bicicletta scarrozzano un McMenù da una parte all’altra della città.
La soluzione non è “distruggi il lavoro”. Il lavoro non è il male. E sentirlo dire da chi magari non ha mai lavorato un giorno in vita sua brucia come una presa per il culo. Nascondersi dietro ad un ozio filosofeggiante è deleterio, soprattutto per noi che dobbiamo parlare a chi lavora nella lingua corrente, non con astruse formule da liceali incalliti.
Pensare che attività intellettuale e attività pratica siano cose distinte è falso, ed occorre riconciliare questo scisma se si vuole far sì che il lavoro torni al giusto posto nella vita degli uomini, ovvero non fine ma mezzo. Il problema non è nemmeno far tornare il lavoro ad una dimensione più democratica: la gerarchizzazione è naturale e propedeutica alla collaborazione organica per il fine del lavoro che è la produzione. Il problema semmai è togliere dal vertice della piramide il capitale e porlo anch’esso a strumento e mezzo in collaborazione con le parti.
Dare quindi alla produzione il significato di qualità e non di quantità, di sforzo comunitario per la grandezza dell’azienda, della città, della Nazione. Una visione che non considera il lavoro in quanto bruta azione materiale ma come sforzo che può sostituire, non sempre, l’orizzonte della guerra.
Ora, considerare i lavoratori come classe rivoluzionaria per eccellenza significherebbe ripetere un errore ideologico già commesso da altri. Eppure non possiamo ignorare che oggi, anche il lavoro, che qualcuno vuole sistema perfetto ed ineluttabile per la fine della storia e l’avvento dell’eden, è in realtà fallato, problematico, schiavizzante.
Questo non è il paradiso in Terra, almeno non per chi deve portare l’acqua al mulino ed è essenziale (come profetizzava lo stesso Mazzini) istruire i lavoratori alienati alla loro importanza e reale peso nella società.
Cosa farebbe Fedez senza le cooperative che montano un concerto? Nulla. Si tratta non di far impugnare le armi ai proletari di tutto il mondo, ma bensì renderli consapevoli del potere reale che essi hanno: perché se è vero che si ha il controllo di qualcosa quando si ha il potere di distruggerla (la proverbiale mano sul pulsante), allora ognuno di noi sul posto di lavoro può essere ago della bilancia.
Non tutti (forse nessuno) sono pronti a questo tipo di ragionamento, perché è vero che il potere di licenziamento è una mannaia che cala repentina a qualsivoglia insubordinazione e le pressioni indirette quali possono essere la famiglia, i figli e la sopravvivenza sono calmieri ancora più forti di una lettera di richiamo. Eppure bisognerebbe chiedersi, qual è l’alternativa migliore?
Una sopravvivenza da precario in perenne affitto? Se sì, allora siete (siamo) gli schiavi perfetti. Se invece si vuole lavorare non per necessità ma per volontà di sforzo, se si vuole giungere alla suprema concezione di lavoro come arte, non si può aspettare che qualcuno (come direbbe Pound) venga a liberarci. Bisogna lavorarci.
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