di Christian
“Quindici uomini sulla cassa del morto. Yo-Ho-Ho.”
Una canzone pirata a metà tra realtà e invenzione. Compare per la prima volta ne “L’isola del tesoro” di Stevenson, ma la sua nascita si mischia con la leggenda. Quest’ultima dice che il capitano Edward Teach, meglio conosciuto come Barbanera, abbia abbandonato trenta dei suoi uomini su un’isola deserta come punizione per il loro ammutinamento con soltanto una pistola con un colpo, una bottiglia di rum e una di polvere da sparo ciascuno. Al ritorno della nave sull’isola Dead Man’s Chest (la cassa da morto) gli ammutinati erano rimasti in quindici.
Eppure, per tarpare le ali della fantasia, è necessario ricordare che quando parliamo dei celebri anni d’oro della pirateria intendiamo un periodo durato al massimo una trentina d’anni (tra il 1700 e il 1730) e che coinvolse soltanto qualche centinaio di criminali esportati nelle colonie caraibiche per dare manforte nella creazione di una nuova civiltà.
Ma per quale motivo quegli sporchi criminali ubriaconi irradiano ancora oggi dopo 300 anni il loro fascino?
Non si creda che al tempo non fosse così: già durante i migliori anni della pirateria a questo modo di vivere si ispirarono diverse opere teatrali e letterarie. Perché? Per due motivi principali:
In primis, per quanto sia vero che si trattasse indiscutibilmente di criminali, i pirati erano in grado di toccare una morale di concetti superiori, di archetipi, e dietro la dura scorza di sporco e crudeltà si ritrovano idee eccelse come la libertà e l’uguaglianza tra uomini. La seconda motivazione, stretta derivazione della prima, è che ciò che andava effettivamente a crearsi su di una nave pirata era una società vera e propria, per molti versi migliore di quella di ora e di allora.
È innegabile che l’idea di “una chiglia, quattro vele e solo l’orizzonte davanti a sé” sia un concetto di libertà insuperabile; anche allora, per i giovani aspiranti pirati, era una delle attrattive più forti. Si tratta di un concetto, al giorno d’oggi, assolutamente utopico; potersi liberare di una società opprimente, librarsi in volo sulle assi di legno di una nave e, mentre il vento ti accarezza il viso, fare rotta in direzione del luogo che più ti piace, libero dai vincoli odierni. Ma c’è dell’altro; il capitano John Roberts, meglio conosciuto come capitano Bartholomew, elaborò una semplice ma precisa linea guida da seguire a bordo di una nave pirata. Da essa possiamo trarre esempi di qualità sociali quasi utopiche se paragonate ai giorni nostri e ai giorni di allora. Vi faccio qualche esempio:
Il capitano della nave era scelto democraticamente e seguendo un preciso ordine di meritocrazia. I tesori conquistati, eccezion fatta per il capitano e gli ufficiali di più alto grado (che ne percepivano rispettivamente due quote e una quota e mezzo) erano spartiti in egual misura tra tutti i membri dell’equipaggio. Il parley e le pene per i trasgressori costituivano un abbozzo di processo giuridico che nella terraferma si utilizzava a spizzichi e bocconi. Erano presenti addirittura regole contro il gioco d’azzardo.
Un codice d’alta concezione morale, redatto da uno dei più famosi pirati di tutti i tempi. Un criminale pronto a uccidere e a depredare per puro amore dell’oro, ma moralmente più puro e alto della grande borghesia e aristocrazia benpensante.
“In un lavoro onesto” diceva il suddetto Bartholomew “il cibo è pessimo, i salari sono bassi e il lavoro è duro. Nella pirateria c’è abbondanza di bottino, il lavoro è facile e divertente, siamo liberi e potenti. Chi, posto davanti a questa scelta, non avrebbe preso la strada della pirateria?”.
Eppure la terribile controparte era la forca; ad ogni uomo accusato di pirateria attendeva, senza ulteriore processo, di pendere appeso a una corda finché morte non sopraggiungesse. Nessuno descrisse meglio questo tragico destino di Daniel Defoe, fantasticamente citato ne “La vera storia del pirata Long John Silver” di Larsson. Egli (parliamo di un reale Defoe trapiantato in un libro di fantasia), incontra Barbecue in una locanda e prende a raccontargli della sua passione per le impiccagioni; non per la corda che strozza il collo, che fa uscire gli occhi dalle orbite e fa penzolare un uomo senza vita a mezz’aria, ma per l’attimo precedente: lo sguardo del condannato a morte, quel paio d’occhi privi del più piccolo briciolo di paura, fermi davanti alla folla esultante, fiammeggianti e pronti all’oblio.
Una scelta tutt’altro che facile dunque, che pare dare la mano all’antitesi del cittadino che accetta i soprusi (il fatalismo, per intenderci) e il criminale che paga la sua libertà con l’ombra della forca; è la morale il peso che fa muovere la bilancia, poiché in un’epoca in cui la democrazia era ancora un feto deforme, una combriccola di sporchi criminali incalliti ha stampato a caratteri eterni idee archetipiche che ancora oggi abbiamo difficoltà a perseguire.
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