Di Michele
Orwell ha rotto il cazzo, che abbia ragione o torto poco importa. Citato, abusato, incompreso, lo scrittore inglese fa ormai stabilmente parte dell’immaginario pop di tutti noi. Ma se ormai si dice “governo orwelliano!” con la stessa approssimazione di come un tempo si diceva “governo ladro”, qualcosa non va.
Sono stati due romanzi a consacrare George Orwell come un classico della letteratura inglese: La fattoria degli animali del 1945 e 1984 del 1948. Il primo è una critica alla rivoluzione bolscevica del 1917, scritta come una fiaba di Esopo. Il secondo è una distopia in cui l’Inghilterra è stata sottomessa ad una dittatura che fa il verso a quella stalinista. Due opere che si reggono quindi sull’anticomunismo di Orwell. Un anticomunismo che gli deriva dall’esperienza della guerra civile spagnola, ma che viene vissuto dalla stessa parte della barricata. Orwell infatti si è sempre ritenuto un socialista democratico, che potremmo definire come la versione meno avvincente e più borghesizzata del socialismo. Non proprio il massimo.
All’epoca essere anticomunisti significava rompere la santa alleanza dell’antifascismo, cosa che infatti gli fu lungamente rimproverata dall’intellighenzia di sinistra. Ma ai giorni nostri, con il blocco sovietico crollato su stesso nel 1989 – cioè appena una manciata di anni dopo il fatidico 1984 dell’omonimo libro – l’anticomunismo è diventato parte integrante della narrazione che è rimasta padrona del campo, cioè quella liberal-democratica. Il comunismo è diventato solamente l’ennesima pietra d’inciampo per la trionfante marcia del progresso, un altro totalitarismo da abbattere sulla via della democrazia, cioè del libero mercato. Non è un caso che con la fine del comunismo nasca il globalismo, perché quest’ultimo non rappresenta nient’altro che l’ideologia del mercato-mondo ormai liberato (si fa per dire).
Paradossalmente l’uomo che diceva di sé: “ogni riga di ogni lavoro serio che ho scritto dal 1936 a questa parte è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo a favore del socialismo democratico, per come lo vedo io”1, è diventato la principale arma retorica di chi vuole affermare che l’attuale democrazia non sia altro che un’impostura totalitaria. Ciò viene fatto in nome di 1984, libro che ha saputo eccitare la fantasia del pubblico come pochi altri. Ma c’è qualche problema di fondo, il primo è dettato dalla confusione riguardo al concetto stesso di totalitarismo. Spesso si vede nel totalitarismo l’alleanza tra dittatura e potere della tecnica. Regimi totalitari sarebbero la Germania nazista e la Russia sovietica, ma non l’Italia fascista che pure ha introdotto il totalitarismo come idea e come parola. Nella realtà dei fatti il totalitarismo non è l’equivalente di un sistema repressivo iper-tecnicizzato, quanto piuttosto la volontà di vedere lo Stato come una totalità in cui il singolo viene ricompreso e riceve senso. Insomma totalitarismo è l’idea di uno Stato organico, non la repressione sistematica delle libertà individuali fino allo sterminio di massa.
Questa evidente storpiatura del concetto di totalitarismo non è neutrale, ma viene usata come legittimazione del democraticismo, per mettere nello stesso calderone i propri nemici contro ogni evidenza storica. È la volontà dell’ideologia globalista di presentarsi come un bene assoluto a creare i totalitarismi come male assoluto. Se non si esce da questa narrazione diventa impossibile attaccare nella sua essenza il globalismo e si finisce per sproloquiare su pensiero unico e politicamente corretto senza reali effetti.
Arriviamo al secondo problema, ovvero il messaggio di fondo di 1984. Tutto il romanzo si gioca sul ribaltamento di verità che dovrebbero essere invece di per sé evidenti. Un esempio sono gli slogan del partito: “La guerra è pace”, “La libertà e schiavitù”, “L’ignoranza è forza”; oppure i nomi dei ministeri: Ministero della Verità per la propaganda, Ministero dell’Amore per la polizia politica, Ministero della Pace per la guerra, Ministero dell’Abbondanza per un’economia piuttosto malandata; o ancora i vari personaggi del romanzo: Julia viene inizialmente odiata dal protagonista Winston Smith, O’Brien viene presentato come una figura paterna mentre si rivelerà (spoiler) il peggiore aguzzino di Winston, il capo del partito, ovvero il Grande Fratello, è un’invenzione propagandistica, come il suo nemico Goldstein. Perfino il tentativo di ribellione di Winston si risolve nel suo opposto. L’effetto straniante di tutto il libro non è dato semplicemente da questo continuo sostituirsi della verità con la menzogna, quello che nel linguaggio del romanzo potremmo chiamare bipensiero, ma dal fatto che falsità così palesi vengano accettate, che le persone riescano a condurre vite normali nonostante tutto questo.
Il cammino che porta Winston a scoprire l’impostura e la profonda ingiustizia del sistema lo conduce solamente verso un’ansia di normalizzazione in cui “libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro”2, ossia affermare l’ovvio, in cui l’unica potenza rivoluzionaria sarebbe quella dell’eros, di un eros però abbruttente (“odio la purezza, odio la bontà! Voglio che la virtù non esista in nessun luogo, e che tutti siano corrotti fin al midollo”3) e che finirà per tradirsi. Non c’è una dimensione più alta, non c’è una comunità o un’ideale per cui combattere, non c’è eroismo, non c’è sacrificio, non c’è nulla. Winston è lo specchio dell’uomo medio, di quello che altri chiamerebbero con disprezzo borghese. È l’ultimo uomo nietzscheano “quegli che tutto rimpicciolisce”4. Questo normalismo esasperato, questa banalizzazione del reale, questa caduta verso il basso– qualcuno ha detto Salvini? – hanno qualcosa di incapacitante. Serve qualcosa di più per scardinare il potere.
Infatti la rivolta di Winston si rivela l’ennesima menzogna del sistema. Dietro i terroristi della Confraternita si cela sempre il partito. La parabola di Winston si conclude con un processo di rieducazione orrorifico, tra le torture della psicopolizia e della Stanza 101. Vediamo alla fine un Winston stremato e sconfitto, nella prosaica cornice di un bar mentre si beve la propaganda del regime e il proprio gin scadente. Ecco l’epifania finale, si rompe l’ultimo sigillo e Winston capisce, e si arrende all’amore del Grande Fratello ed al suo sorriso beffardo: “ora amava il Grande Fratello!”. Una fine in realtà senza grandi spiegazioni. Si potrebbe dire che Winston finalmente apprezza la capacità di manipolare il reale del partito, oppure che è felice che i dogmi del Socing si siano finalmente sostituiti alla sua coscienza. In ogni caso la frustrazione esistenziale di Winston è stata riassorbita dal sistema, ora apprezza la sicurezza che il Grande Fratello gli offre.
Un finale così disperante è gravido di conseguenze. Solitamente viene letto, così come tutto 1984, alla luce del binomio sicurezza e libertà, in altri termini di totalitarismo e democrazia. Cosa che abbiamo visto essere abbastanza scorretta. La democrazia non si sottrae alle aspirazioni securitarie o a modalità repressive. E lo fa proprio perché non è un totalitarismo. L’idea di uno Stato totalitario è quella di una iper-politicizazzione della realtà, in cui questa diventa il campo di battaglia di visioni del mondo contrapposte, il cui conflitto assicura la dinamicità della storia e la libertà di ciascuno. Al contrario, la democrazia è il luogo della tirannia della maggioranza, in cui l’ideologia dominante è ancora più pervasiva perché non si riconosce come tale. Il mondo del globalismo, il mondo del pensiero unico non è un totalitarismo mascherato, ma la democrazia che mostra il suo vero volto. D’altronde come ci ricorda Ernst Jünger: “lo stesso borghese si caratterizza, meglio che in qualsiasi altro modo, come l’uomo che attribuisce un supremo valore alla sicurezza, e ne determina di conseguenza la propria condotta di vita”5. Continuare a usare Orwell e 1984, per accusare il sistema che abbiamo di fronte di aver sostituito la libertà con la sicurezza, non è proprio una mossa intelligente, si finisce solamente per fare come Winston Smith e piangere di gioia di fronte al Grande Fratello.
1 G. Orwell, Perché scrivo.
2 G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 2011, p. 86.
3 Ibi, p. 131.
4 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2012, p. 11
5 E. Jünger, Scritti politici e di guerra. 1919 – 1933. Vol. 3: 1929-1935, LEG, Gorizia, 2005, p. 223.
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