Di Moro
“La polemica di Nietzsche verso Platone… Quell’immorale critica di un Nichilista verso il più importante filosofo della storia. Chi, leggendo i passi di un qualsiasi libro di Nietzsche non ha mai intravisto una sconsiderata e violenta polemica contro tutto quanto è vagamente elevato spiritualmente? Come si permette quel folle di Friedrich Wilhelm Nitezsche, quel mezzo-polacco decisamente depresso, di criticare il primo grande sintetizzatore della politica, dell’etica e della filosofia occidentale?”
Ce la si può immaginare la risposta alle accuse di Friedrich Nietzsche verso Platone, suonerebbe probabilmente come questa: piena di termini e congetture tipiche della grande filosofia sistematica razionale, morale, ideale nata con il super-trio Socrate-Platone-Aristotele. Sarebbe la difesa di un sistema che, dopo i greci, ha visto coinvolti personaggi come gli scolastici, gli idealisti, i puritani. Sarebbe, in definitiva, la difesa a favore di quanti hanno tentato di uccidere i grandi esponenti dell’uomo dionisiaco. Perché se Nietzsche ha accusato Platone, lo ha fatto anche per l’attacco di quest’ultimo a Omero.
Si può infatti individuare una grande contrapposizione nell’antichità greca: da una parte vediamo il filone di Socrate, della filosofia dell’assoluto, delle idee innate, del giusto ad ogni costo, del rigore morale e la pace innalzata a massimo ideale. Si vede il primo grande tentativo di forzare gli individui a disperdersi nell’assoluto, di formulare un ordine totale ed onnipresente che tentasse di giungere ad un’utopia, ad una polis perfetta e perfettamente governata da un’aristocrazia morale. In definitiva, su questa barricata vediamo l’Apollo nietzschano.
Sulla barricata opposta a questa vediamo i grandi rinnegati di Platone: Esiodo e Omero, i grandi poeti della vita e della natura umana così com’è, i grandi esaltatori della virtù più nobile, affiancata – non contrapposta – al vizio più temibile. Omero narra storie di eroi, di individui con i loro grandi pregi e i loro difetti, dove gli uni e gli altri hanno una concezione completamente diversa da quella attuale: dove per noi c’è un alto ed un basso, per loro questa distinzione si fa più sottile, e sono quasi visti come parti ugualmente importanti dell’essere umano. Entrambi vedono l’umano nella sua interezza, pienezza e naturalezza e lo cantano, senza pregiudizi di carattere morale.
Come potrebbe, questo, andare bene al teorico della morale assoluta?
Scrive Platone in Repubblica: “Non si può dire ad un giovane che ci ascolta che un dio, commettendo un gravissimo delitto, non ha fatto nulla di straordinario; […] Né si dovrà raccontare, assolutamente, che gli dei si fanno la guerra tra loro, e si battono e si tendono insidie […]. Guardiamoci inoltre dal raccontare e dal rappresentare le grandi battaglie di giganti e le inimicizie di ogni genere di dei ed eroi contro consanguinei e parenti. Noi vogliamo infondere la persuasione che nessun cittadino ha mai odiato un altro cittadino, e che questo odio è un delitto”.
Subito dopo, scrive: “Gli anziani e le vecchie nutrici devono, fin dal principio, narrare ai giovani racconti ispirati a questi criteri e quando saranno cresciuti bisogna obbligare i poeti a comporre favole ugualmente ispirate. […] Pensa alle battaglie tra dei che Omero ha descritto: queste cose non devono queste cose non saranno ammesse nella nostra città”.
Insomma, vorrebbe rinnegare praticamente la maggior parte degli aspetti della mitologia greca. Platone, al fine di promuovere la sua idea di morale, avrebbe voluto completamente snaturare la religione greca e la vitalità dell’istinto umano.
Questo atteggiamento censorio è alla base di quella sequela di eventi che ha portato la distruzione della Biblioteca di Alessandria, l’inquisizione e, non di meno, la moderna iconoclastia, censura, l’odio per la storia e l’ipocrisia morale. Un atteggiamento di profondo odio verso quella che è la natura umana e verso le sue rappresentazioni letterarie, un atteggiamento che sta alla base della repressione delle passioni dell’individuo che, da allora, ha perseguitato, a fasi ed intensità alterne, l’essere umano; relegandolo nel ruolo di un perenne Dottor Jekyll.
A riguardo si pensi anche solamente al cosiddetto amore platonico, l’amore privo della dimensione passionale. Scrive in Simposio:
“Perciò, in quanto figlio di Poros [povertà] e di Penìa [ingegno], Eros si trova in questa condizione: è sempre povero e tutt’altro che tenero e bello, come invece ritengono i più, anzi è aspro, incolto, sempre scalzo e senza casa, e si sdraia sulla terra nuda, dormendo all’aperto davanti alle porte e per le strade secondo la natura di sua madre, e sempre accompagnato dall’indigenza. Invece per parte di padre insidia i belli e i virtuosi, in quanto è coraggioso e ardito e veemente, e cacciatore astuto, sempre pronto a tessere intrighi […] e quel che acquista gli sfugge sempre via, di modo che Amore non è mai né povero né ricco, e d’altra parte sta in mezzo fra la sapienza e l’ignoranza.”
Vediamo quindi Eros, la dimensione carnale dell’amore invece elogiata sia da Omero che da Esiodo – e attribuita da questi agli dei – raffigurato come uno straccione lontano da ricchezza, bellezza, immortalità e sapienza; virtù invece affidate da Platone a tutte le altre divinità.
Ancora, scriverà Platone che la dimensione dell’Eros è sicuramente la prima a comparire, ma questa deve essere presto abbandonata per l’amore dell’anima, dell’assoluto, delle cose superiori. Si vede, quindi, il principio della repressione del genere d’amore carnale che vedrà il suo apice nella cultura delle riforme più puritane. Come se l’essere umano fosse solo puro spirito, e non anche un animale edonista – alla Sigmund Freud – che ricerca continuamente il piacere, o come se l’amore carnale non fosse il più naturale e l’unico in grado di generare vita.
Abbiamo quindi la ricerca di una vita ideale che non prevede alcun difetto, nessun vizio, che tende all’abbandono della dimensione dell’Eros, il distacco dalla dimensione sensibile per tendere ad una fantomatica dimensione assoluta fatta di idee. Insomma, la vita perfetta di Platone, che deriva direttamente da quella del maestro Socrate, diventa quindi un’idea, un paradigma assoluto, un modello universale che non ammette eccezioni. In questo contesto, Omero è l’eccezione.
Socrate, stando alla testimonianza di Platone, è stato il primo ad associare morale e perfezione alla religione. Omero, invece, è uno dei grandi poeti che associarono alla dimensione divina le qualità di ogni essere umano, descrivendo – insieme ad altri autori del calibro di Esiodo – gli dei stessi come antonomasie di quelli che verranno identificati dai filosofi ateniesi come pregi e difetti.
Divinità che fanno cose da umani, divinità che combattono e scendono in battaglia, che litigano e prendono parte, che commettono adulteri ed atrocità, in Omero la dimensione divina si fa continuatrice di quella umana. Questo non solo in lui, egli è infatti qui citato come rappresentante di una vittima ben più grande del razionalismo socratico: la tragedia. Quella ammirata da Nietzsche, come espressione di una realtà caotica, terribile, vitale e che serve come fenomeno sociale e pedagogico di sublimazione delle paure dei membri della Polis greca.
Quindi, Platone è arrivato vicino al realizzare il suo piano: uccidere Omero. Tuttavia, la mente umana è mutevole, corruttibile, ingenua, ma non dimentica facilmente la sua natura. Tutto ciò che nell’individuo è pulsionale, quindi ancestrale, non viene eliminato, ma viene immagazzinato lontano dalla dimensione coscia, e ogni tanto non può fare altro che risalire. Così Dioniso è sopravvissuto ad Apollo, ed Omero a Platone, e a noi altro non resta che riportare codesto spirito tragico al suo ruolo naturale, accettando la natura e la psiche umana così come sono, in tutte le loro derivazioni più istintuali.
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