Di Lemmy
La morte nello sport è un assurdo, come sono abituati a raccontare con stupore i commentatori. Esiste solo in una piccola nicchia. Solo quando ti trovi alle prese con i motori.
Sembra impossibile che quei ragazzi, su moto e macchine dalla potenza folle ed indomabile, fossero pronti a riposare in pace. Ma i piloti lo sanno.
Gilles Villeneuve, di cui oggi ricorre il trentottesimo anno della scomparsa, lo sapeva. Reduce da così tanti incidenti da essere soprannominato l’Aviatore, per via dei voli che spiccava la sua automobile.
Senna, anche lui lo sapeva. Come lo sapeva Simoncelli e ne era cosciente il giapponese Shoya Tomizawa. Dannati motori, adorati motori.
Ogni curva che facevano su quelle ruote era fuori traiettoria, di traverso. Alzava una nuvola bianca che andava poi al cielo, chissà con quale sentimento racchiuso dentro di sé. Motori scorbutici, bisognava davvero trattarli con i guanti. Sicuramente più umani rispetto ad oggi, perché le emozioni le scaricavano in un modo completamente diverso. Motori con un’anima, con quella voglia insensata di andare veloce, sempre più veloce. Con quella sensazione di rischio, quel brivido che correva lungo la schiena di chi ti guidava. Senza controlli, in balia solo del pedale del gas. Altro che gli airbag, l’Haas e tutte quelle diavolerie tecnologiche, insano riflesso di una società impaurita, ossessionata dalla sicurezza e dalla paura. Muri, muri di gomma ovunque. Protezioni ovunque.
No, le competizioni vere erano altra cosa. Uomini che guidavano macchine mortali, freddi, lucidi e senza paura. Macchine che lasciano qualcosa nel cuore e nella mente, che fanno pensare a rifare di nuovo una pazzia del genere. Macchine e moto straordinarie, per uomini d’élite. Uomini straordinari. Uomini oltre l’uomo.
Ma l’incidente fa parte del contesto, della spettacolarità dello sport. Ed è una parte importante, perché dal punto di vista di chi guarda c’è una sorta di attrazione e repulsione verso la possibilità della morte. La repulsione è un fatto ovvio, chiaramente. È la parte dello spettatore che si rifiuta di vedere, contrapposta alla tensione malata, al voyeurismo macabro che fa guardare, mandare indietro il nastro, rivedere l’impatto. Che fa degli incidenti gli attimi più seguiti delle gare. Attimi sospesi, impastati di adrenalina, disagio, paura, terrore e speranza. Una parabola breve del tempo sospeso.
Quando un pilota muore in gara, ci vuole una gran dose di cinismo per andare oltre ed esorcizzare la paura. E infatti l’ambiente assorbe il colpo piuttosto in fretta. Dedica i doverosi tributi, gira pagina e tenta di andare avanti. Come se essere veloci fosse necessario, l’unica strada praticabile per non lasciare spazio alla paura. Altrimenti i Gran Premi non li guardi più.
Ma il pilota? A cosa pensa?
Il pilota queste domande non se le pone, se non come un pensiero tangenziale. Ci si avvicina, senza mai toccarle davvero.
Si tratta di ragazzi, giovani uomini spinti dalla passione e da un’incoscienza, spesso legata ad un fatto anagrafico. Un gene sbagliato, che fa a pugni con l’autoconservazione. Li porta ad affrontare la vita con la certezza dell’immortalità, senza aver contemplato il fatto di essere mortali. Non è una riflessione, una scelta deliberata. Non fa parte del conto, come magari può essere una frattura, una paralisi o una semplice caduta. È un’ipotesi irrealizzabile, perché l’unica valida è la velocità, il senso della loro vita. Perché loro, mortali, in fin dei conti non lo sono.
E lo sanno, per loro natura sfidano la morte, ridendo a denti stretti di fronte a lei.
Lo sanno così tanto che la cercano, anche quando si potrebbe farne a meno. Non solo su quelle auto e moto, ma nel resto di una moltitudine di attività a rischio, dove la più tranquilla sembra lanciarsi con un paracadute.
Tempo perso mettersi a fare conti preventivi, cercare amuleti, perdersi in riti pre-gara. Quelli servono per vincere, mica per vivere. Tempo perso mettersi a fare patti. I patti li fanno gli amici, che guardano, ma non vogliono vedere. I patti li fa chi ha paura. Ma chi ha paura smette. Chi ha paura non corre.
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