Di Bianca
È un dato di fatto che i dettami globalisti si stanno insediando in ogni aspetto del campo politico, economico e sociale, nei quali la degenerazione materialistica ha ormai consolidato il modello statunitense, esportato a livello mondiale. E fra gli aspetti del sociale che maggiormente sono stati colpiti, se ne riscontra uno spesso sottovalutato, nonostante si trovi letteralmente sotto i nostri nasi – o, per meglio dire, sulle nostre tavole.
Il dominio della logica del mercato e della frenesia del consumo capitalistico, infatti, si estendono non solo ai “beni” materiali ma anche al consumo (meglio dire consumismo) dei prodotti alimentari. Porzioni esorbitanti di cibi e bevande ipercalorici, pasti consumati in fretta o in piedi perché “il tempo è denaro”: il tutto beneficiato dal pagamento di prezzi che, più che economici, sono irrisori. Ma il vero prezzo da pagare, in realtà, è ben più alto di quello che sembra.
Le diete globali si stanno indirizzando verso cibi ultra-processati, la dipendenza dai fast-food e dalle bibite zuccherate; tutto ciò di pari passo con investimenti colossali di capitali nelle pubblicità delle aziende alimentari, plasmando così i gusti delle masse, in particolare dei più giovani, consolidando l’instaurazione della dittatura delle multinazionali.
La colonizzazione di migliaia di catene di fast-food aperte e disponibili 24 ore su 24 hanno reso il cibo una dipendenza, rendendo il nostro corpo perennemente stimolato al desiderio di mangiare. Ma le note ripercussioni fisiche che stanno colpendo un numero sempre più alto di persone (obesità, diabete, malattie cardiovascolari e respiratorie) sono solo gli aspetti più evidenti della questione. L’individualismo ha paradossalmente eliminato ogni aspetto umano dell’alimentazione, asservita da cibi preconfezionati che stanno decretando il tramonto dell’attività culinaria, nonché la morte delle culture coadiuvata dall’azione sempre più capillare della globalità.
La peculiarità dei sapori e la modalità con cui si degustano delineano infatti un tratto identitario, parte integrante della cultura di un popolo nonché suo fondamentale aspetto creativo. Quindi l’espressione siamo quello che mangiamo non assume esclusivamente un mero significato nutritivo e fisico, ma intende il cibo come veicolo dell’affermazione di un modo d’essere. Un ideale culinario che l’Italia ha incarnato con la millenaria dieta mediterranea, e sapendolo incarnare non come statico e a sé stante ma di pari passo con la Tradizione, che è appunto senza tempo.
È risaputo che la dieta mediterranea costituisce il modello alimentare migliore in assoluto per l’apporto variegato e completo dei nutrienti fondamentali, con il consumo di frutta, legumi, ortaggi, pesce, olio d’oliva, vino (in quantità moderate) e cereali. Questi ultimi si sono consolidati come imprescindibili della gastronomia italiana, senza necessità di menzionare l’importanza del pane e della pasta, che vanno ben oltre l’essere semplici alimenti tipicamente nostrani, per profilarsi non solo come elementi di unione comune a tutta Italia ma anche come simboli della nostra identità culinaria.
Quella mediterranea è pertanto una dieta varia e bilanciata, ma che in passato si distingueva soprattutto per la sua frugalità e la sua sobrietà. La semplicità degli alimenti si sposava con un modello etico che dettava l’equilibrio nelle scelte alimentari e l’autocontrollo dal cedere ai piaceri di gola. Il nutrimento non era – e non doveva essere – un’occasione da immolare alla degustazione dei sapori, bensì l’assunzione delle fonti di energia necessarie e utili per il corpo tali da permettergli di continuare le attività giornaliere. L’assunzione dei pasti era inoltre rigidamente preclusa a determinati momenti della giornata, che coincidevano con le occasioni di riposo dal lavoro; e la loro brevità permetteva di tornare a occuparsi quanto prima delle incombenze quotidiane.
È anche vero che, se i romani preferivano seguire una dieta contenuta durante la giornata, la sera in ogni domus patrizia venivano allestiti banchetti ben forniti che potevano durare anche per ore. Queste lunghe e pompose cene, però, erano più occasioni in cui riunirsi con i famigliari o gli amici per mangiare in compagnia che opportunità di abbuffarsi a volontà e senza contegno, con una logica di comunità che coglieva pienamente il significato del cibo come elemento di unione sociale. La voracità era infatti vista come un grave difetto, in quanto il goloso mancava di quell’autodisciplina e di quel decoro che distinguevano il cittadino romano, e che per sé privava gli altri di ciò che era a disposizione di tutti.
Non che in passato si trascurasse o si sottovalutasse l’importanza del cibo. Nelle civiltà antiche l’alimentazione assumeva i connotati di tramite religioso con il divino e diventava un mezzo di raggiungimento della salvezza spirituale attraverso determinate pratiche e astinenze periodiche. Per i pagani la carne era un dono degli dèi e come tale era un bene da condividere con loro e per loro: il consumo di carne era quindi ricorrente in giorni propizi e in particolari periodi dell’anno. I greci e i romani precristiani più abbienti servivano un pasto ai cari defunti nelle occasioni commemorative. Il digiuno, pratica ancora ricorrente in diverse religioni, non era vissuto come rinuncia o perdita, ma come sacrificio, cioè un privarsi dei bisogni terreni per aspirare a qualcosa di trascendente ed elevarsi spiritualmente.
Il cibo non si configurava quindi come una fonte di nutrimento solo per il corpo ma anche per l’anima, e permetteva all’uomo di superare sé stesso e di raggiungere uno stato di benessere sia fisico che mentale. Al giorno d’oggi, con l’impero dei fast food e la colonizzazione di ristoranti etnici, la nostra missione è curare il nostro corpo (e di conseguenza il nostro spirito) con la scelta di alimenti sani e benefici, e che soprattutto comprendano tutte le categorie alimentari. Se si riduce il cibo alla cura stessa, non vi sarà guarigione alcuna, e del cibo diventeremo schiavi.
Non che sia obbligatoriamente da abolire qualche capatina al Mc o al sushi di fiducia. Ma la concezione del cibo anche come alimento dello spirito porta a una consapevolezza e a un riguardo maggiori verso le nostre scelte, volte al raggiungimento di un benessere compiuto e duraturo: è il compimento della mens sana in corpore sano.
Pertanto, la salute non deve essere intesa come un modello imposto dalla società per fini esclusivamente estetici, per ostentare un bel fisico alla prova costume; ma come un traguardo da raggiungere in primo luogo interiormente, perché è la mente a diventare sana prima del corpo. Come sosteneva Erofilo, fondatore della Scuola Medica di Alessandria, “quando manca la salute la saggezza non vale, l’arte non si può esercitare, la forza della mente e dello spirito latita, e la ricchezza non ha alcun valore“.
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