Di Christian.
Nota a tutti come fulgido esempio della lotta contro un destino controverso, l’Odissea può essere ancora oggi, dopo 2700 anni, un vaso colmo di insegnamenti per la nostra vita.
In questo senso il canto XI è uno dei più importanti. Odisseo, fuggito dalle brame di Calipso che desiderava averlo come eterno marito e grazie all’intervento della dea civetta Atena, si trova ora in vista della terra dei Feaci, ma Posidone Maremoto, irato con il Laertide (Ulisse, Odisseo indicano lo stesso eroe) per aver cecato l’unico occhio di suo figlio Polifemo, lo fa schiantare contro i rocciosi scogli dell’isola. Fuggito all’ira della divinità, Odisseo si trova ora ospite di Alcinoo, signore dei Feaci, zelanti marinai, e racconta il suo nome e le disavventure vissute dopo la vittoria riportata a Troia.
Sebbene l’intera opera incarni il significato dell’uomo che lotta contro il proprio destino, in questo punto della narrazione possiamo trovare un tratto in cui tale metafora è punto focale. Odisseo va raccontando della sua disavventura nel palazzo di Circe, e del suo comando, alla partenza degli argivi, di approdare nel regno dei morti per incontrare il tebano Tiresia, unico uomo a cui gli dèi, anche nella morte, hanno concesso il dono della veggenza. Giunto al regno di Inferno e della terribile Persefone, il Laertide offre le sue libagioni ai morti, e la terra si popola delle ombre degli uomini e delle donne non più in vita.
Il primo a presentarsi a Odisseo è un suo compagno, morto sull’isola di Circe, e a esso egli promette che presto tornerà su quella terra per dare al suo corpo degna sepoltura e compianto. Successivamente il re degli itacesi vede venirgli incontro la madre, che alla partenza verso la città di Priamo egli aveva lasciato ancora in vita. Ricordiamo però che la guerra tra troiani e danai durò più di nove anni e l’ulteriore attesa e le preoccupazioni, oltre alla grande voglia di riabbracciare il figlio disperso, l’avevano stroncata. Ella gli racconta del padre Laerte, ormai vecchio, che osserva impotente la sciagura della casa del figlio e del nipote Telemaco, e di come sua moglie Penelope sia rimasta fedele impedendo al più forte degli itacesi di prenderla in moglie. A questo punto compare Tiresia che, dopo aver bevuto il sangue degli animali libati, predice a Odisseo un duplice destino. È qui che compare netta la forza dell’uomo, capace di imprese gloriose, finanche quella di mutare il proprio destino, di decidere per sé stesso. Tiresia predice infatti che se egli saprà tenere a bada le brame sue e dei suoi gregari, e lascerà quindi stare le vacche di Elio Iperione e non le caricherà sulle concave navi, egli giungerà a Itaca e in quella terra solo la vecchiaia potrà allontanarlo dalla vita; tuttavia, se così non dovesse essere, egli tornerà sì a Itaca, e si vendicherà dei Proci che prosciugano le sue ricchezze, ma sarà costretto a ripartire per un nuovo viaggio, e il demone funereo lo prenderà lontano dalla sua casa e dalla sua Patria e tra gente estranea.
In questi versi si esprime tutta la potenza dell’uomo-eroe, capace di imporsi, tramite la sua volontà, anche al proprio destino. Da queste strofe è opportuno trarre esempio e insegnamento di come la nostra volontà può mutare il fato che ci attende. Nel mondo d’oggi, distante dalle eroiche imprese omeriche, imporsi sul proprio destino vuole dire allontanarsi dall’ignavia, dal fatalismo e dall’immobilismo. Per questo paragone è importante la figura di Thanatos, personificazione greca della morte, rappresentato come un giovane dal divino aspetto, con la spada al fianco. La sua figura, tuttavia, non veniva mai rappresentata in posizione di guerra o di azione, ma, il più delle volte, il suo corpo era abbandonato all’ozio e alla noia. Pare quindi che le sue rappresentazioni siano un ammonimento a coloro che si abbandonano al fatalismo, a una vita oziosa, poiché essi sono già come morti.
Degna di nota è anche la figura del Daimon, riportata in molti lasciti greci tra i quali i pensieri di Esiodo, Eraclito e Socrate. Traducibile con la parola demone, sta a intendere una condizione che sta in mezzo tra il mortale e gli dèi. Per Esiodo, il Daimon indicava la condizione umana dopo la morte e, per altri, l’essenza stessa dell’anima intrappolata nel corpo umano. Eraclito identificava il Daimon con l’esatto significato di destino. Socrate invece lo definiva come una voce guida, che interveniva nelle sue decisioni impedendogli di prenderne di sbagliate, ma senza mai offrire alternative o proposte. Uno spirito guida che lo spinge quindi verso il suo destino. Raccogliendo questi pensieri si giunge a una definizione nuova di destino, ovvero una continuità che ci accompagna da prima della nascita fino alla fine dei nostri giorni, un obiettivo, un prolungamento dell’essere oltre la morte del corpo. Il destino si compone così di due parti: una che segue il filo conduttore del mondo e degli eventi, sui quali non possiamo esercitare alcuna volontà. La seconda parte è invece quella che ci viene posata tra le mani nel momento della nostra nascita e spetta a noi portarla a maturazione.
“Sento il dovere di agire finché ne ho ancora la forza” scriveva Venner nella sua ultima lettera, “per rompere il letargo che ci opprime. […] Insorgo contro la fatalità”.
Da Omero ai giorni nostri possiamo trovare innumerevoli esempi di uomini che si sono imposti al proprio destino, che hanno fatto della propria vita un’autentica guerra al fatalismo.
Incarna quello stesso spirito e combatti.
La tua guerra è ora.
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