Di solito, questa è la giornata dell’anno in cui si ritirano fuori, da una parte e dall’altra, vecchi cliché e rancorose maniere.
Non è nostra intenzione sperticarci nella difesa del nostro pensiero, che è già ben noto, e sicuramente non ha bisogno di essere mostrato come una medaglietta ma piuttosto di restare vivo e vegeto nelle azioni di ciascuno di noi. Spesso ci si chiede, almeno una volta all’anno (minimo), in qualche trasmissione o su qualche giornale in bisogno disperato di vendite, se il Fascismo è morto o è ancora vivo… Domanda fuorviante, buona a staccare le opinioni dalla realtà, soprattutto in tempi in cui l’attenzione deve essere allontanata dalla proverbiale luna per essere spostata non sul dito che la indica, ma sul braccio destro che è alzato in maniera equivoca. Perché è fuorviante? Perché parte dal paradigma consolidato secondo cui il Fascismo sia una manifestazione storica conchiusa nella vita di Benito Mussolini, uomo solo al comando, Duce di tutti e per questo unico capro espiatorio di tutta l’esperienza ventennale. Non c’è niente di più falso, e se noi stessi accettiamo questa temporalizzazione e personalizzazione dell’Idea, ci ritroviamo nel tranello senza uscita di un infinito dibattito.
Il 28 aprile, dovrebbe essere chiaro a tutti, non viene ucciso solo Benito Mussolini. Con lui, oltre alla compagna di sempre Claretta Petacci, viene uccisa tutta una classe dirigente che nell’esperienza della Repubblica Sociale aveva trovato ed avverato il compimento supremo della rivoluzione del ’22. Con lui viene ucciso Nicola Bombacci, fondatore del Partito Comunista Italiano, un nome che già da solo dovrebbe portarci a chiederci se il 28 aprile sia una data infame non solo per il nostro mondo, ma anche per quella corrente di sinistra che vedeva nella socializzazione dell’economia messa in atto dalla Repubblica, il compimento delle promesse rivoluzionarie della sinistra.
Insomma, a Dongo e Giulino di Mezzegra, si tenta di uccidere la Rivoluzione: quella Rivoluzione nazionale e sociale che aspirava al superamento del manicheismo plutocratico e bolscevico, oggi saldatosi nel globalismo, in nome di quella idea atemporale ed universale di Repubblica Platonica, che doveva inverare l’uomo nuovo e il sogno del mondo ideale. La poesia del XX secolo si può sintetizzare nei versi di Pound: “Uno schianto, non una lagna / per costruire la città di Dioce che ha terrazze color delle stelle”. Ma questo che Pound consegna a noi nella forma dei Cantos non è un epitaffio tombale, ma la missione senza tempo degli uomini del suo stampo. Infatti, se c’è una cosa che l’antifascismo e nemmeno gli storici hanno mai capito è che il Fascismo in quanto esperienza storica relegata tra il 1919 e il 1945, non è che l’ennesima riproposizione dell’idea che è sempre stata e sempre sarà. Il Fascismo non è morto perché non è mai nato, o meglio, affonda la sua origine ben oltre quello che uno storico definirebbe plausibile. La città di Dioce, anche se solo nella nostra mente, sarebbe pur sempre esistita. Allora lo sforzo di costruirla con tutte le forze della nostra volontà non è “metaforico giuramento ma pratica quotidiana”.
Una missione, la nostra, mai conclusa e sempre in divenire che si riproporrà sempre perché sempre l’uomo cercherà la via “altra” rispetto a ciò che il mondo gli pone di fronte come dogmi assoluti. Oggi, di fronte alle sfide del ventunesimo secolo non possiamo, non dobbiamo, fossilizzarci sulla storia ma dobbiamo sapere che l’Idea è la nostra meta: non qualcosa che ci sta alle spalle, ma qualcosa che ci sta davanti, che deve essere ri-conquistata ad ogni costo. Non si tratta di paroloni, non si tratta di cultura di pochi: la nostra cultura è quella che nasce dalle azioni. Il Fascista crede nella volontà, mentre oggi si è vittime della fatalità; crede che ogni atto, anche il più piccolo, sia importante, mentre oggi si pratica la casualità; crede nello sforzo di costruire attraverso il tempo, mentre oggi si si lavora per l’effimero; crede nella legge dell’onore e della responsabilità, mentre oggi la viltà e il delegare sono sinonimi di successo; crede nella vita, non nella sopravvivenza ad ogni costo; crede… mentre oggi il nulla avanza.
Abbiamo scelto, per la grafica che accompagna questo articolo, un estratto del discorso di Mussolini al lirico di Milano, del 16 dicembre 1944. Ben sintetizza il mostro politico che oggi stiamo affrontando in tutti i campi: dalla scuola al lavoro, dalla politica all’informazione, dalla cultura all’economia, ciò che oggi è globalismo non è altro che la plutocrazia (o capitalismo liberista, che suona meno complottista) che esercita il potere attraverso gli sgherri addomesticati del bolscevismo: la sinistra si è convertita alla causa del capitale proprio il 28 aprile 1945, quando ha ucciso la sua stessa rivoluzione. Oggi, l’Italia vive proprio in questa enorme bolla di schizofrenia che ha fatto da palcoscenico ad un’interminabile guerra civile: costruita sul sangue, questa Repubblica Italiana non ha mai saputo sanare la ferita dell’8 settembre, e oggi vive in uno stato di accettazione/non accettazione dell’esperienza fascista e dell’esperienza “Repubblichina”. Già chiedersi oggi, settantacinque anni dopo, se il Fascismo sia ancora vivo o meno, è l’indice di massimo grado della morte cerebrale dell’area post-comunista: la paura dei morti li accompagnerà fino alla fine dei loro giorni.
Ma a noi questo non deve importare, non dobbiamo farci distrarre dai distrattori di professione perché il globalismo, costruito sulle macerie dell’Europa, è vivo e vegeto e sta smantellando proprio ciò che la civiltà europea ha costruito in venti secoli. Siamo ancora qui per dimostrare che “non riuscirà ad annientare con la sua tenebra lo spirito eterno che tali monumenti innalzò”. Nemmeno la storia e il tempo possono uccidere lo Spirito, perché si alimenta di esempio. Fin quando ci sarà un solo uomo che vive per portare un rametto al fuoco, questo continuerà ad ardere. Non è astrazione, ma azione quotidiana.
Oggi, vogliamo dedicare il nostro pensiero e il nostro fiore, che purtroppo non potremo portare fisicamente, ai morti d’Aprile e ai ragazzi che hanno combattuto, combattono, combatteranno per un’altra Repubblica.
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