di Enrico

Pochi giorni fa è stata data la notizia del cessate il fuoco tra le milizie di Hamas e l’entità sionista. Dopo 15 mesi di guerra e oltre 50.000 palestinesi massacrati, è entrata in vigore la prima fase di una tregua che era in iter di negoziazione da quasi un anno. Cercheremo ora di capire cosa prevede esattamente l’accordo, quali conseguenze ha avuto (e potrebbe avere in futuro) e cosa dobbiamo aspettarci per i prossimi tempi.

COSA PREVEDE L’ACCORDO

I negoziati sono arrivati ad una tregua strutturata in tre fasi. Il 20 gennaio è entrata in vigore solo la prima fase. Le altre due verranno discusse a partire dal quindicesimo giorno dall’inizio del cessate il fuoco. La fase uno prevede da parte di Hamas il rilascio di parte degli ostaggi in cambio della liberazione di prigionieri palestinesi, detenuti nelle prigioni israeliane, situate soprattutto nei territori occupati della Cisgiordania. La prima fase prevede in tutto una tregua di 42 giorni, al termine della quale, nel caso in cui non dovesse scattare la fase due, i combattimenti riprenderanno. Se tutto invece andrà come previsto dai vertici di Hamas nel corso dei negoziati, entro la fine della fase tre tutti gli ostaggi verranno rilasciati in cambio di un numero sempre maggiore di prigionieri civili palestinesi.

LE CONSEGUENZE CONCRETE E IMMEDIATE

Come previsto dagli accordi, tra domenica e lunedì è avvenuto il primo scambio di prigionieri: Hamas ha liberato tre donne prese in ostaggio durante l’azione del 7 ottobre 2023, mentre l’entità sionista ha rilasciato 90 prigionieri palestinesi detenuti nella prigione di Ofer a Ramallah, nella Cisgiordania occupata. In tutto, alla fine della prima fase dovrebbero essere rilasciati una trentina di ostaggi da parte di Hamas, in cambio della liberazione di un migliaio di detenuti palestinesi. La maggior parte di questi ultimi, ricordiamolo, sono detenuti senza accuse. Ciò è possibile tramite una misura chiamata “detenzione amministrativa” che consente all’esercito d’occupazione di incarcerare civili palestinesi a tempo indeterminato senza bisogno di processo.

Dal punto di vista militare, l’esercito israeliano si è ritirato parzialmente dal nord della Striscia di Gaza, mantenendo però alcune “posizioni di sicurezza”; certo, perché chiamarle “posizioni da cui far ripartire il massacro una volta che tutti gli ostaggi saranno stati rilasciati” suonava male, specie con dei negoziati in corso.

LE CONSEGUENZE POLITICHE

Una decisione del genere ha avuto, nel governo di Tel Aviv, conseguenze rumorose ma che cambiano poco la sostanza dei fatti. I tre ministri del partito di Itamar Ben-Gvir, Potere Ebraico, si sono dimessi dalla loro carica, per via della loro contrarietà alla tregua.  Ciò non stupisce: il partito di Ben-Gvir è infatti il maggiore e più estremo rappresentante del sionismo religioso. Per avere un’idea di che soggetto sia, basti pensare che fino a qualche anno fa, prima di diventare ministro, lo stesso Ben-Gvir era noto per mostrare con orgoglio nel proprio studio il ritratto di Baruch Goldstein; quest’ultimo fu un terrorista sionista che nel 1994 a Hebron, nella Cisgiordania occupata, uccise 29 civili palestinesi e ne ferì altri 125. I sionisti religiosi di Potere Ebraico sono gli stessi che hanno salutato l’invasione di Gaza come “l’opportunità per creare nuovi insediamenti ebraici nella regione”. Si capisce quindi come mai questi soggetti siano contrari al cessate il fuoco, al punto da dimettersi dai tre ministeri che occupavano.

LA FINE (IN GALERA) DI NETANYAHU?

Se però dovessero dimettersi o uscire dalla coalizione di governo anche i parlamentari di Potere Ebraico, Benjamin Netanyahu non avrebbe più la maggioranza parlamentare necessaria a governare.

Cosa succederebbe allora?

Come tutti ricordiamo, Netanyahu è stato salvato politicamente dallo scoppio del conflitto, perché su di lui gravano accuse molto pesanti di cui, una volta esaurito il mandato come premier, gli sarebbe stato presentato il conto dal sistema giudiziario. Avendo però dichiarato lo stato di guerra dopo il 7 ottobre 2023, Netanyahu non è più temporaneamente processabile, poiché non ci saranno nuove elezioni finché non verrà dichiarato sospeso lo stato di guerra. Ma dal momento che quella scattata in questi giorni è una tregua (ovvero una temporanea sospensione delle operazioni belliche, che non cancella lo stato di guerra), non la pace definitiva, per il momento non ci potrebbero ugualmente essere dimissioni (e processi) per Netanyahu.

Ma anche qualora dovesse cessare lo stato di guerra e Netanyahu esaurisse il mandato, siamo sicuri che processarlo sarebbe così facile? Non sembrerebbe. Se prima dell’ottobre 2023 il premier israeliano era considerato politicamente un uomo morto e che appena uscito dal palazzo presidenziale gli sarebbero state messe le manette, oggi la situazione sembra essere molto diversa. L’opinione pubblica israeliana è passata dal chiedere la testa di Netanyahu (per scandali finanziari e tentate riforme della giustizia) a vedere in lui una sorta di “salvatore della patria”, come l’uomo che ha assestato duri colpi ai principali avversari dell’entità sionista, in particolare ad Hamas e all’Iran. E di questa opinione è anche l’IDF, che in Israele è in realtà parte della società civile (basti pensare che la radio più ascoltata in Israele è la radio dell’esercito), non è un’entità separata.

Fermo restando che a Netanyahu resterebbe sempre la possibilità di raggiungere la moglie e il figlio a Miami e di dare inizio ad un esilio dorato, siamo davvero sicuri, alla luce di quanto abbiamo detto che si potrà processare il criminale autore dello sterminio di Gaza, ora che è protetto dall’opinione pubblica e da un esercito che lo porta in palmo di mano?