Di Jean

Milano, 1968. Cesare ha diciassette anni. Un pomeriggio insieme ad un amico entra nella sede della Giovane Italia in corso Monforte, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale. Come tanti che vi entrano così per caso, anche Cesare prende la tessera ignaro che dal quel giorno la sua vita cambierà per sempre. Da lì in poi inizierà a frequentare regolarmente la sede diventa di presto un militante politico a tutti gli effetti.  Son tanti i ragazzi che in quegli anni intraprendono una strada analoga. Tanti si, ma i più li lasciano illudere dalle utopie marxiste e scelgono il comunismo. Cesare e pochi altri scelgono la parte sbagliata , quella più odiata, tanto dai Rossi quando dai perbenisti democristiani. La parte di chi ha deciso  di raccogliere il testimone di quei ragazzi che poco più di vent’anni prima lottarono fino all’ultimo per l’Italia.

Chiude la sede di Corso Monforte e i giovani camerati iniziano a trovarsi nella vicina Piazza San Babila. Ora è più semplice per i  compagni  assaltare i fascisti per i quali la difesa dell’ avamposto conquistato difenda un dovere. Una tranquilla piazza commercia del centro milanese si trasforma ben presto si trasforma in una vera e propria trincea.

Passano i mesi, gli anni e il livello dello scontro si alza sempre di più. Dalle spranghe e dai coltelli si passa alle pistole e alla dinamite. Molti finiscono dietro le sbarre, chi solo per qualche giorno e chi invece vi passerà diversi anni, accusato di omicidi e stragi mai commessi.

“San Babila la nostra trincea” è un racconto autobiografico che, seppur parzialmente romanzato come sottolinea l’autore nella prefazione, narra di una vita militante vissuta in prima persona. Anni di una spensierata giovinezza passata tra sezione e piazza, tra barricate e galera.

La Milano a cavallo tra gli anni sessanta e settanta è una città violenta. I rossi sono tanti e ancora covano un fortissimo rancore verso i fascisti. D’altronde la guerra è finita da poco più di vent’anni e molti dei compagni che tirano molotov alle sedi dei camerati sono i figli dei partigiani, gli eroici antifascisti stando alla loro narrazione. Hanno si vinto la guerra ma non tollerano che in Italia v’è ancora qualcuno che, seppur giovane, ha scelto di portare avanti quell’Idea assoluta che è il Fascismo. Solo pochi anni dopo l’odio antifascista, spinto anche dagli assassini partigiani che sedevano in parlamento, condannerà a morte Sergio Ramelli. Non è facile essere fascisti nella rossissima Milano: per i camerati sanbabilini armarsi diventa una necessità, specialmente quando il livello dello scontro si alza. Se prima bastavano i bastoni per scacciare i compagni, ora serve all’occorrenza sparare. E ogni qual volta dei Katanga malmenano un camerata che da solo passava nella via sbagliata, una sede dei rossi deve saltare in aria. Nascono così le SAM (squadre azione Mussolini), un gruppo spontaneo che piazza ordigni artigianali o molotov contro le sedi comuniste.

Una distanza siderale tra noi, ragazzi del XXI secolo, e i sanbabilini. Tanti sono i camerati che finiscono dietro le sbarre, chi solo per qualche giorno e chi invece ci resta per anni accusato di omicidi e stragi mia commesse come Maurizio che viene imputato di aver ucciso un celerino durante gli scontri del giovedì nero milanese. Ma anche lo stesso Cesare Ferri, arrestato nel 1974 con l’infamante accusa di aver partecipato in maniera più o meno diretta alla Strage di Piazza della Loggia a Brescia quando una bomba deflagrò in una piazza gremita di scioperanti uccidendone otto e ferendone più di cento. Una delle tante stragi addossate ai fascisti, il capro espiatorio per eccellenza, i quali mai furono coinvolti in tali atrocità.

Per noi figli dell’era post-ideologica caratterizzata dal disimpegno l’assalto di una sede o di un banchetto è  certamente una eventualità da tendere in considerazione ma è piuttosto rara  almeno per la maggior parte della città. Il mondo è cambiato totalmente: caduto il muro è venuta man mano a meno l’opposizione comunista che nel frattempo si è reinventata come parte integrante del capitale che tanto combatteva. Va da se che in Italia non esistono movimenti comunisti ben organizzati e strutturati come negli anni settanta ma solo qualche rimasuglio di antagonismo che nella maggior parte dei casi si limita ad urlare dall’altra parte della piazza quando manifestiamo.

Eppure leggendo le avventure del Ferri si avverte quello stesso spirito cameratesco che si respira nelle nostre sezioni. Quella goliardia, quella voglia di sfida e quell’ingenuità di chi a vent’anni stava in San Babila sono le stesse dei ragazzi del Blocco Studentesco. Cambiano i tempi, cambia il modo di fare militanza e gli impegni che essa richiedere ma lo spirito rimane immutato.